Traduzioni telematiche a cura di Rosaria Biondi, Nadia Ponti, Giulio Cacciotti, Vincenzo Guagliardo (Casa di Reclusione - Opera) Rudyard Kipling. IL SECONDO LIBRO DELLA JUNGLA. Titolo originale dell'opera: "The second Jungle book", 1895. Traduzione integrale dall'inglese di Maria Luisa Agosti. Introduzione di Enrica Zaira Merlo. Copyright EDIZIONI PAOLINE s.r.l., 1990. Su concessione EDIZIONI PAOLINE. INDICE. Introduzione: pagina 3. 1. Come venne la paura: pagina 18. 2. Il miracolo di Purum Bhagat: pagina 49. 3. L'invasione della Jungla: pagina 75. 4. I beccamorti: pagina 123. 5. L'"ankus" del Re: pagina 162. 6. Quiquern: pagina 194. 7. Il Cane Rosso: pagina 234. 8. La corsa della primavera: pagina 276. INTRODUZIONE. La vita. Rudyard Kipling nacque a Bombay il 30 dicembre 1865 da John Lockwood Kipling, direttore della Scuola d'Arte di Lahore, e Alice McDonald, cognata del celebre pittore preraffaellita Burne-Jones. L'ambiente esotico, artistico e variopinto in cui visse fino ai sei anni influì profondamente sulla produzione artistica di Rudyard: i suoi primi amici furono i colleghi del padre, gli inservienti indù, le cameriere cattoliche, persone che convivevano armonicamente nonostante la differenza di lingua, razza e religione. Rudyard imparò a parlare il dialetto locale mentre imparava l'inglese, e si abituò a vivere in un mondo libero e composito. Questo periodo felice si concluse però nel dicembre del 1871: secondo la consuetudine delle famiglie inglesi che abitavano in India, fu mandato a frequentare le scuole in Inghilterra, con la sorella minore, ed affidato ai coniugi Holloway di Southsea. Kipling ricorda questi anni come i più infelici della sua vita, anni di frustrazioni e di sofferenze, che gli indebolirono la vista e gli minarono il fisico, e che terminarono nel 1877, quando fu trasferito a Devon per continuare gli studi. Le condizioni economiche della famiglia non gli permisero però di frequentare l'università, e nel settembre del 1882 tornò in India. Poco prima del suo diciassettesimo compleanno iniziò a lavorare come giornalista presso la "Civil and Military Gazette" di Lahore, nel Punjab, e poi per il "Pioneer" - il più importante quotidiano dell'India - di Allahabad, nelle province del nord-ovest. Le poesie e i racconti che scrisse nei sette anni che seguirono posero le basi della sua fama: pubblicate presso le edizioni della Indian Railway Library, le sue opere furono distribuite in tutte le stazioni ferroviarie dell'India, e diffuse anche in Inghilterra ed in America. Nel 1889 lasciò l'India, con l'incarico di scrivere una serie di articoli di viaggio per il "Pioneer", e con un grande desiderio di tornare in Europa. Passando per Rangoon, Singapore, Hong Kong e il Giappone, raggiunse San Francisco, attraversò gli Stati Uniti, arrivò a Liverpool in ottobre e fece il suo ingresso nel mondo letterario londinese. Nel 1890 la sua attività di collaboratore a giornali e riviste diventò frenetica, mentre la sua fama si consolidava, grazie anche alla pubblicazione di "The light that failed", accolta trionfalmente dal pubblico; le cattive condizioni di salute - conseguenza dei sette anni trascorsi in India - lo obbligarono però a interrompere la sua attività: intraprese quindi un lungo viaggio che lo portò in Italia, Sud Africa, Australia, Nuova Zelanda e, per l'ultima volta, in India. Tornò in Inghilterra alla notizia della morte di Walcott Balestier, l'amico americano di cui sposò la sorella Caroline nel gennaio del 1892; la coppia si stabilì nel Vermont, dove visse fino al 1896. Fu un periodo ricco di creatività, in cui Kipling sentiva rifluire le energie che lo avevano abbandonato; i "Libri della Jungla" (1894 e 1895) testimoniano la fertile ispirazione di quegli anni. Dopo la nascita di due figlie, Josephine ed Elsie, e in seguito a controversie con il cognato Beatty Balestier, la famiglia si trasferì in Inghilterra, a Rottingdean; nel 1897 nacque John, il terzogenito, e venne pubblicato "Capitani coraggiosi". Nel 1898, quando scoppiò la guerra dei Boeri, Kipling si recò a Città del Capo, nell'attuale Repubblica Sudafricana, a quel tempo colonia britannica, dove soggiornerà tutti gli inverni fino al 1908, con incarichi giornalistici. Visitò la Rhodesia, e nel 1899, anno della morte della figlia Josephine, si recò per l'ultima volta negli Stati Uniti. Nel 1901 pubblicò "Kim". La sua attività creativa venne coronata nel 1907 dal Premio Nobel per la Letteratura. Tra il 1909 e il 1914 militò nel Partito Conservatore, e questa connotazione politica intaccò non poco la sua fama. Visitò il Canada e l'Egitto, e tra il 1914 e il 1918 si recò varie volte sul fronte occidentale e sul fronte italiano, ancora una volta corrispondente di guerra. Un grave dolore gli venne inflitto dalla morte del figlio John, disperso dopo un solo giorno di combattimento. L'ispirazione non lo abbandonerà mai, l'attività letteraria incessante lo accompagnerà fino al 1936, anno della morte. Dal 1937 al 1939 viene pubblicata la sua opera completa, edizione che egli stesso aveva preparato durante i suoi ultimi anni e che comprende "Something of Myself", un'autobiografia affascinante come un romanzo. Le opere. E' molto difficile definire il talento di Rudyard Kipling. Nessun autore è più diverso, enigmatico e cangiante: è allo stesso tempo un giornalista che racconta aneddoti di viaggio, un romanziere che descrive la vita di caserma, un cronista che segue le spedizioni militari, un sognatore - come Edgar Allan Poe - che va oltre le forze e le concezioni umane, un descrittore della natura esotica e dei paesi lontani, un poeta che adatta alla sua ispirazione ogni metro e stile, un profondo investigatore ed analista dell'animo umano, e l'inventore di un originalissimo modo di «romanzare» le sensazioni e le oscure concezioni dei nostri «fratelli inferiori», l'esistenza movimentata delle creature selvagge che popolano la jungla e vivono secondo la sua Legge. Ed in ognuna di queste forme egli raggiunse un altissimo grado di maturità artistica. La grande varietà dei suoi temi, la maestria nell'utilizzare i più diversi stili letterari, la raffinatezza nell'uso del linguaggio, gli furono riconosciuti dal mondo accademico e gli valsero un Premio Nobel, ma Kipling viene anche considerato lo scrittore in lingua inglese più popolare, quello che ha avuto il più grande successo proprio perché ha saputo rivolgersi al lettore più semplice come al più colto. Oggi, spogliate dalla patina delle mode, liberate dalle polemiche ideologiche che suscitarono, le sue opere ci appaiono, oltre che capolavori di scrittura letteraria, anche lo specchio fedele del momento storico in cui visse. L'etichetta di «cantore del colonialismo inglese» non vale più: oggi si considera Kipling un interprete cosciente della sua epoca, un uomo che ha vissuto integralmente nel suo tempo, e che ci ha trasmesso onestamente, e in un linguaggio godibile, le idee in cui credeva: il rispetto per il lavoro dell'uomo, per qualsiasi arte o mestiere, la fiducia nell'ingegneria e nella tecnologia, nella forza dell'esercito e nel destino imperiale. La Rivoluzione Industriale e l'Imperialismo furono i due principali avvenimenti socio-economici del diciannovesimo secolo in Inghilterra: il grande impulso di creatività ingegneristica, il potere dinamico delle invenzioni tecnologiche ebbero in Kipling l'unico riflesso letterario di grande levatura. Carlyle, che lodava il progresso ma ne vedeva anche gli aspetti negativi, disse che l'epica moderna doveva essere tecnologica, e non più militare, ed è proprio l'uomo, con il prodotto del suo lavoro e della sua inventiva, il protagonista di tante opere di Kipling. La sua fede nell'Impero non mirava a lusingare la vanità nazionale e razziale, né a propagandare un programma politico: semplicemente egli sentiva la realtà di una situazione in cui era nato e vissuto, ed era pienamente consapevole delle responsabilità del dominio inglese, ma anche dei suoi difetti. Credeva che l'Impero fosse un bene, e lo descrisse secondo il suo ideale astratto; riteneva che gli Inglesi fossero adatti a certi compiti più di altri popoli, ma non ne sostenne mai la superiorità di razza: il tipo d'uomo che ammira non è condizionato da alcun pregiudizio, anzi, i personaggi dei suoi racconti che hanno maggiore spessore sono gli indigeni. Il fatto di essere nato in India, di avervi trascorso l'infanzia e parte della giovinezza, oltre alla straordinaria e precoce sensibilità per l'ambiente, gli fanno descrivere Purun Bhagat o i protagonisti del suo capolavoro, "Kim", con occhio amoroso e con grande realismo e, tra i personaggi britannici, egli simpatizza per quelli che più hanno sofferto e lottato. Ma, soprattutto, l'India ha plasmato una parte fondamentale del suo carattere: l'attitudine religiosa. La tolleranza di qualsiasi fede e dottrina, il panteismo, addirittura la magia e la superstizione, l'hanno straordinariamente arricchito e liberato dai settarismi, ma anche reso diverso dai suoi connazionali. Proprio in questa «diversità» si deve forse cercare la causa della diffidenza e delle polemiche che la sua opera ha suscitato: nella sensazione che Kipling non sia facilmente definibile, un uomo senza patria ma anche senza nostalgia, senza credo ma profondamente religioso, senza ideologia ma con ideali irremovibili. Proprio questa «lontananza», questo guardare le cose come «ospite», come «straniero» dovunque si trovasse, questo descrivere senza giudicare, gli hanno permesso però di avere una visione più lucida, più impersonale e, in fondo, più «storica» del suo tempo. I "Libri della Jungla". I "Libri della Jungla", l'opera in prosa più popolare di Kipling, furono scritti in America, in un periodo della sua vita particolarmente tranquillo e fecondo. Come "Alice nel paese delle meraviglie", appartengono a quel filone «infantile» della letteratura inglese che, sotto la forma di storie raccontate da un adulto ai bambini, nasconde un complesso lavoro letterario ed esprime «in piccolo» la filosofia di vita dell'autore. Anche per i "Libri della Jungla", come Kipling spiega nell'autobiografia, sembra che l'ispirazione gli sia venuta da fonti che non controllava consciamente, sotto l'influenza di facoltà profetiche, di ciò che chiama il suo «Demone», e con l'aiuto di una «seconda vista»; ci parla anche di alcuni libri che lo ispirarono - tra i quali "Beast and Man in India", scritto da suo padre, e "Nada the Lily", novella del suo amico Rider Haggard, in cui si parla di un ragazzo che vive con i lupi - e che trattavano del rapporto uomo-natura: gli servirono da stimolo per la composizione dei "Libri della Jungla", in cui il tema del piccolo uomo allevato dai lupi è un argomento originale e allo stesso tempo eterno, e questi libri sembrano qualche cosa di assolutamente diverso dalla letteratura per ragazzi: sono storie di fantasia e paiono l'espressione di un mito potente, di una cosmogonia arcaica; l'abilità straordinaria dell'autore, la purezza della sua immaginazione, riescono a trasportarci nel mondo dei popoli fanciulli, liberi dai secoli di sforzi intellettuali che hanno costruito l'uomo civilizzato, in un mondo dove la natura può ancora imporre la sua Legge, che regola la misteriosa vita delle piante, degli animali e dell'uomo. Sembra quasi che a Kipling sia successo ciò che ha narrato nella "Storia più bella del mondo", sul tema della reincarnazione: un ragazzo fornisce a uno scrittore il materiale per un racconto sul tempo passato, e le sue minuziose descrizioni non sono frutto di studi e ricerche, ma piuttosto le reminiscenze di una vita ancestrale. Mowgli - il ragazzo abbandonato nella jungla, un «innocente» che viene ammesso nel mondo degli animali, come Parsifal o san Francesco - attaccato dalla tigre, salvato dai lupi che lo alleveranno, protetto dal capobranco Akela, dall'orso Baloo e dalla pantera nera Bagheera, unirà alle sue innate capacità umane ciò che apprenderà dagli animali e diventerà padrone della jungla; il giovane lettore si identifica con lui e recepisce il messaggio didattico che sta alla base del libro: Mowgli passa la sua vita tra gli animali, imparando tutte le loro tecniche di sopravvivenza, ma allo stesso tempo rendendosi conto del potere che ha su di essi, e giunge infine a prendere coscienza della sua diversità, ad accettare una nuova vita e nuove responsabilità, ed a passare al mondo degli uomini. Il messaggio educativo che pervade queste pagine, ma non ne appanna il linguaggio poetico, consiste appunto nel sottolineare il momento della crescita, in cui il ragazzo deve apprendere umilmente ed esplorare coscientemente se stesso per poter entrare nel mondo degli adulti. Anche il tema dell'iniziazione, usato per celebrare la nobiltà del mondo animale, dove regnano la pietà e l'amore più che la forza e la violenza, serve per spiegare quanto Mowgli abbia imparato dalla Legge del Popolo Libero, al quale si contrappone la società degli uomini, che Kipling non condanna, ma trasforma in un elemento dialettico di quel suo mondo ideale in cui le virtù morali e spirituali hanno ancora un'importanza primaria. Le avventure di Mowgli sono interrotte da storie di tutt'altro genere, che ne costituiscono quasi un contrappunto e ne riprendono i temi di fondo. I "Libri della Jungla" hanno goduto in passato di una popolarità maggiore rispetto ad oggi. In Italia furono apprezzati fin dagli esordi, e da personaggi come Cesare Pavese o Antonio Gramsci, che dal carcere consiglia la lettura di queste novelle, «... dove circola una energia morale e volitiva», al figlio Delio «come ad ogni altro bambino del quale si voglia irrobustire il carattere ed esaltare le forze vitali». Forse, furono un po' offuscati dalle storie di Tarzan, che riprendevano il tema del «ragazzo selvaggio», dalle scarne interpretazioni cinematografiche, o dall'uso che Baden-Powell, peraltro amico di Kipling, fece di Mowgli e dei suoi amici per definire gruppi e attività del movimento dei Boy Scouts. Ma, nonostante tutto, ancor oggi l'energia vitalistica ed il profondo valore letterario balzano prepotentemente fuori dalle pagine dei "Libri della Jungla". "Il secondo libro della jungla". "Il secondo libro della jungla" contiene una tra le più belle pagine dell'opera di Kipling, «Il miracolo di Purun Bhagat», e riprende e conclude con cinque racconti magistrali la saga del ragazzo-lupo, iniziata nel primo libro. «Come venne la paura» è un approfondimento, una consacrazione del tema della Legge della Jungla, che «ha provveduto per quasi tutti gli incidenti che possono accadere al Popolo della Jungla e può considerarsi ormai il codice più perfetto che il tempo e la consuetudine abbiano creato». La siccità, descritta in tutto il suo orrore, convincerà Mowgli, che qui ha un ruolo secondario, della potenza della Legge cui tutti gli animali si sottomettono per uscire dall'emergenza; così il ragazzo capirà una regola fondamentale: l'Obbedienza alla legge. «Il miracolo di Purun Bhagat» è stato considerato uno dei migliori racconti di Kipling dal punto di vista stilistico, anche perché è una spiegazione del suo mondo spirituale. Il tema assomiglia a quello del Lama in "Kim". Il Bhagat lascia la vita politica attiva, i successi mondani, per ritirarsi in contemplazione e purificarsi per raggiungere la saggezza. Sarà alla fine considerato santo da uomini ed animali, ed emergerà dalla solitudine mistica per salvare il suo popolo, affermando che nella solidarietà umana sta il significato dell'esistenza. L'ispirazione di Kipling ci appare qui assolutamente libera, persino dalla sua appartenenza alla nazione inglese, e supera l'opposizione Oriente-Occidente grazie alla comprensione e alla solidarietà con un uomo che sceglie la strada della contemplazione e rinuncia alla vita attiva. Il gusto della vendetta, tratto del carattere di Kipling forse da ricollegare alle sofferenze del suo soggiorno infantile in Inghilterra, compare spesso nella sua opera, e lo ritroviamo in «L'invasione della jungla», dove il protagonista Mowgli, che non riesce a versare sangue umano, delega altri ad eseguire la sua vendetta sul villaggio. Il mondo degli uomini è descritto come povero e meschino, e Mowgli ne è completamente estraneo, al punto da dichiarare che non sa che cosa sia la giustizia dell'uomo. Il suo comportamento è comunque selvaggio e crudele, e il suo dialogo con l'elefante Hathi, quando organizza la vendetta, è impressionante, ma forse un po' troppo prolisso. La trama dei «Beccamorti» è poco rilevante: una conversazione fra tre predatori, il coccodrillo, lo sciacallo e il marabù, raccontata in modo discontinuo e con molti flashbacks. Questo racconto non è stato amato dalla critica, benché contenga alcuni elementi interessanti: compare un'altra volta il tema della vendetta, ed inoltre nelle parole dei tre animali viene messo in risalto l'aspetto ferino e crudele dei ritmi della natura, della vita e della morte come meccanismi ineluttabili, ai quali l'uomo ha attribuito troppi significati non necessari, non naturali. Infine, il coccodrillo formula una complessa definizione del progresso: «Da quando è stato costruito il ponte della ferrovia, la gente del mio villaggio ha smesso di amarmi, e questo mi spezza il cuore». E una delle rare volte in cui, nonostante tutto il suo amore per la tecnologia, Kipling riconosce lucidamente che i ritmi naturali ne sono gravemente turbati ma, per mitigarne l'effetto, mette la frase in bocca ad un animale con cui non è facile simpatizzare. Nell'«Ankus del Re» Mowgli impara un'altra lezione sull'uomo, sulla sua avidità e malvagità, ma anche sulla sua sete di conoscenza, perché «gli occhi dell'uomo non sono mai contenti». Il racconto ha una trama esemplare ed un impianto stilistico impareggiabile, ma carente di quell'atmosfera e di quell'azione che invece abbonderanno nel «Cane rosso». «Quiquern», ambientato nel Circolo Polare Artico, è una storia dalla trama inconsistente, dove però balenano due temi importanti: gli «Uomini del Ghiaccio Maggiore», gli «ultimi tra gli uomini», incarnati da Kotuko, il ragazzo eschimese che non si lascia sopraffare dalle forze nemiche della natura, vivono tra misteriose creature, presenze soprannaturali di cui alla fine Kipling ci offre una spiegazione logica - per provare il coraggio di Kotuko - ma che sono senza dubbio un ricordo delle credenze animistiche della sua infanzia indiana. Straordinaria è la conclusione del racconto, che ne giustifica la presenza in questo libro: il viaggio alquanto macchinoso, dall'Artico fino all'India, della striscia d'avorio su cui Kotuko incide questa storia conferma che non ci sono limiti all'artificio, alla stranezza del caso, ed è un gentile ed ironico gioco sull'essenza della finzione letteraria. «Il Cane Rosso» è sicuramente il racconto più ricco ed affascinante di tutto il libro. Kaa il serpente ha una parte di spicco, e totalmente positiva, mentre la fantasia di Kipling si accende nella descrizione del mondo delle api. La storia ha un carattere epico, ed è piena dei motivi tradizionali delle favole eroiche: il lupo solitario, la morte in combattimento del capobranco, i nemici vinti con l'astuzia, insomma il culmine della leggenda di Mowgli, che sceglie di lottare a fianco dei suoi fratelli lupi invece di tornare tra gli uomini: è questo un momento di grande conflitto tra sentimento e ragione, ma infine la sua vittoria sui cani rossi lo consacra padrone della jungla. «La corsa della primavera» è l'epilogo, in cui «l'Uomo ritorna all'Uomo»: Mowgli si rende conto che rimanere nella jungla significherebbe andare contro la legge della natura, rinnegare la dignità umana che ha faticosamente conquistato. L'evasione e la rinuncia non risolvono il problema dell'esistenza, e così affronta la realtà, nel «rumore della primavera», pronto per il «Tempo del Nuovo Linguaggio». «E' penoso mutare la pelle»: così dice Kaa il serpente, e chiude la storia di Mowgli. ENRICA ZAIRA MERLO. 1. COME VENNE LA PAURA. Il fiume si è ristretto - il pozzo è secco e noi siamo diventati compagni, tu ed io; con la mascella febbricitante e il fianco coperto di polvere ci spingiamo l'un l'altro lungo la riva; e la paura della siccità ci rende tutti calmi sopendo il pensiero dell'inseguimento e della caccia. Ora il cerbiatto può sbirciare all'ombra della madre il magro branco dei lupi intimorito come lui, e il cervo imponente guarda senza indietreggiare la zanna che ha lacerato la gola di suo padre. "L'acqua si è abbassata nei pozzi - i fiumi sono secchi e noi giochiamo insieme, tu ed io, finché quella nube laggiù - buona caccia! - si scioglierà in una pioggia che romperà la nostra Tregua d'Acqua." La Legge della Jungla, che è senza dubbio la più antica delle leggi del mondo, ha provveduto per quasi tutti gli incidenti che possono accadere al Popolo della Jungla e può considerarsi ormai il codice più perfetto che il tempo e la consuetudine abbiano creato. Ricorderete che Mowgli passò gran parte della sua vita nel Branco di Seeonee, e che apprese la Legge da Baloo, l'Orso Bruno. Ed era Baloo che, quando il ragazzo diventava insofferente dei continui comandi, gli diceva che la Legge è simile alla liana gigante, che si stringe addosso a tutti e da cui nessuno riesce a districarsi. - Quando avrai vissuto a lungo come me, Fratellino, ti accorgerai che almeno ad una Legge tutta la Jungla obbedisce, e questa scoperta non ti riuscirà certo gradita. A Mowgli questo discorso entrava da un orecchio ed usciva dall'altro, perché un ragazzo che passa la vita a mangiare e a dormire non si preoccupa di nulla, fino a quando il pericolo non gli si para improvvisamente di fronte. Ma un anno la profezia di Baloo si avverò, e allora Mowgli vide realmente tutta la Jungla sottomessa alla Legge. Cominciò quando le piogge d'inverno mancarono quasi del tutto, e Ikki il Porcospino, incontrando Mowgli in una macchia di bambù, gli disse che le patate selvatiche stavano inaridendo. Ora tutti sanno che Ikki è pedante fino al ridicolo nella scelta del cibo, e che mangia solo cibi di prima qualità e perfettamente maturi; per cui Mowgli rise dicendo: - Che vuoi che me ne importi? - Non molto ORA - rispose Ikki, facendo stridere i suoi aculei in modo sgradevole, - ma più tardi ne riparleremo. C'è ancora acqua sufficiente per tuffarsi nelle pozze sotto la Roccia delle Api, Fratellino? - No; questa stupida acqua se ne sta andando tutta, ed io non ho voglia di spaccarmi la testa - rispose Mowgli, che a quel tempo era convinto di saperne almeno quanto cinque altri del Popolo della Jungla messi insieme. - Ti sbagli. Una piccola fessura servirebbe a farvi entrare un po' di buon senso. - Ikki si raggomitolò rapidamente per impedire a Mowgli di tirargli gli aculei del naso, e Mowgli informò Baloo di quanto aveva appreso dal porcospino. Baloo assunse un'aria grave e brontolò fra sé: - Se fossi solo, cambierei immediatamente il mio territorio di caccia, prima che comincino a pensarci gli altri. Però... a cacciare in mezzo a stranieri si finisce sempre col battersi; e potrebbe andarne di mezzo il Cucciolo d'Uomo. Conviene attendere e vedere come fiorirà il "mohwa". Quella primavera l'albero di "mohwa", di cui Baloo era così ghiotto, non fiorì affatto. I cerei fiori color verde crema furono arsi dalla calura prima ancora di sbocciare e quando l'orso si drizzò sulle zampe di dietro per scrollare l'albero riuscì soltanto a farne cadere qualche petalo maleodorante. Poi, a poco a poco, un caldo torrido invase il cuore della Jungla facendola diventare prima gialla, poi bruna, e infine nera. La verzura, spuntata sulla sponda delle forre riarse, si trasformò in fili ingialliti e contorti, con qualche foglia secca accartocciata; le pozze nascoste si ritirarono e seccarono, lasciando in una crosta di fango indurito le ultime leggere impronte di zampe, come se fossero state impresse in uno stampo di ferro; le liane ricche di linfa ricaddero dagli alberi a cui si erano avviticchiate e morirono ai loro piedi; i bambù appassiti scricchiolavano al soffio infuocato del vento, e fin nel cuore della Jungla il muschio si staccò dalle rocce, finché esse diventarono nude e roventi, come i massi turchini, sul letto del fiume, che sembravano tremolare nel riflesso dell'aria infuocata. Gli uccelli e il popolo delle scimmie partirono per tempo verso il nord perché sapevano ciò che stava per accadere; i cervi ed i cinghiali si spinsero lontano fino ai campi devastati attorno ai villaggi, morendo qualche volta dinanzi agli uomini, ormai troppo deboli per ucciderli. Chil, l'Avvoltoio, rimase, e ingrassò perché le carogne abbondavano; ogni sera portava le notizie alle belve, anch'esse troppo deboli per aprirsi la strada verso nuovi territori di caccia, ché il sole stava uccidendo la Jungla fino a tre giornate di volo, in ogni direzione. Mowgli, che non aveva mai conosciuto veramente la fame, si ridusse al miele duro, vecchio di tre anni, che scavava da qualche alveare abbandonato - miele nero come le susine selvatiche e impolverato di zucchero secco. Dava anche la caccia ai vermi che scavavano buche profonde sotto la corteccia degli alberi, e rubava le covate delle vespe. Tutta la selvaggina della Jungla era ridotta a pelle e ossa, e Bagheera poteva uccidere tre volte in una notte, senza riuscire a sfamarsi. Ma il peggio era la mancanza d'acqua, poiché, sebbene il Popolo della Jungla beva di rado, ha bisogno dl bere abbondantemente. E il caldo aumentava sempre più di intensità e succhiava tutti gli umori finché il letto principale della Waingunga fu l'unico a convogliare uno stentato rigagnolo fra le sue sponde morte; e quando Hathi, l'Elefante Selvatico, che vive cento anni e più, vide emergere una lunga e sottile linea di rocce bluastre nel bel mezzo della corrente, capì che quella era la Rupe della Pace, e subito alzò la proboscide e proclamò la Tregua dell'Acqua come aveva fatto suo padre cinquant'anni prima. I cervi, i cinghiali e i bufali risposero al grido con voce rauca, e Chil, l'Avvoltoio, volò lontano in larghi giri, ripetendo l'avviso con fischi e strida. La Legge della Jungla, una volta dichiarata la Tregua dell'Acqua, punisce con la morte chiunque uccida agli abbeveratoi, perché bere è ancora più necessario che mangiare. Nella Jungla tutti riescono a cavarsela quando è solo la selvaggina a scarseggiare, ma l'acqua è acqua, e quando non c'è più che una fonte a cui attingere, tutta la caccia si arresta quando il Popolo della Jungla scende a dissetarsi. Nelle buone stagioni, quando vi era abbondanza d'acqua, quelli che scendevano ad abbeverarsi alla Waingunga o in qualunque altro luogo, lo facevano rischiando la vita, e questo rischio costituiva non piccola parte del fascino delle imprese notturne. Avvicinarsi al fiume con passo così leggero da non muovere nemmeno una foglia, entrare nell'acqua fino al ginocchio, là dove i mulinelli scroscianti coprono ogni rumore, bere guardandosi le spalle, con ogni muscolo teso pronto al primo balzo disperato di folle terrore; rotolarsi sulla riva sabbiosa e tornarsene, col muso gocciolante ed il ventre gonfio, a farsi ammirare dal branco in attesa, era un'impresa che eccitava tutti i giovani daini dalle lunghe corna, proprio perché sapevano che ad ogni istante Bagheera o Shere Khan potevano piombare loro addosso e atterrarli. Ma ormai quel gioco di vita e di morte era finito, e il Popolo della Jungla si trascinava affamato e spossato al fiume quasi asciutto; la tigre, l'orso, il cervo, il bufalo, il cinghiale, tutti uniti bevevano l'acqua torbida e restavano lì, troppo esausti per allontanarsene. Il cervo ed il cinghiale erano andati vagando tutto il giorno in cerca di qualcosa di meglio delle cortecce secche e delle foglie avvizzite. I bufali non avevano trovato né pozze fangose dove rinfrescarsi, né verdi raccolti da saccheggiare. I serpenti avevano lasciato la Jungla per scendere al fiume nella speranza di catturare qualche rana sperduta: se ne stavano arrotolati intorno alle pietre umide, senza nemmeno tentar di reagire, se il grugno di qualche porco grufolante veniva a disturbarli. Le tartarughe di fiume erano state già da tempo uccise da Bagheera, il più abile dei cacciatori, e i pesci erano sprofondati nella melma secca. Solo la Rupe della Pace si stendeva lungo i bassifondi simile ad una lunga serpe, e le piccole stanche onde evaporavano sfriggendo sui suoi fianchi roventi. Era lì che Mowgli scendeva, la notte, in cerca di frescura e di compagnia. Allora anche il più affamato dei suoi nemici gli avrebbe prestato appena attenzione. La pelle nuda lo faceva apparire più magro e scheletrito di tutti i suoi compagni. I capelli arsi dal sole erano diventati color della stoppia; le costole sporgenti assomigliavano ai cerchi di un paniere, e le callosità delle ginocchia e dei gomiti su cui usava trascinarsi camminando a quattro zampe, davano alle sue membra smagrite l'aspetto di tronchi nodosi. Ma gli occhi, sotto il ciuffo spettinato, erano freddi e tranquilli, poiché Bagheera, che era il suo consigliere in quel periodo terribile, lo esortava a camminare senza fretta, a cacciare con calma, a non perdere mai la testa per nessuna ragione. - Brutti tempi - diceva la Pantera Nera, in una sera torrida come un forno - ma passeranno se riusciremo a resistere fino all'ultimo. Hai la pancia piena, Cucciolo d'Uomo? - C'è dentro qualcosa, ma è come se non avessi mangiato niente. Non credi, Bagheera, che le piogge ci abbiano dimenticato e che non torneranno più? - Ma no! Penso che rivedremo fiorire il "mohwa" e i cerbiatti ingrasseranno di nuovo mangiando l'erba novella. Vieni alla Rupe della Pace a sentire la novità. Montami in groppa, Fratellino. - Non è questo il momento per portar carichi; posso ancora reggermi in piedi per conto mio, ma è certo che né tu né io sembriamo dei giovenchi grassi! Bagheera si guardò i fianchi spelacchiati e polverosi e sussurrò: - Ieri sera ho ammazzato un bue sotto il giogo. Sono ridotta a così mal partito, che credo non avrei osato saltargli addosso se fosse stato libero. "Wow"! Mowgli rise: - Sì, siamo dei cacciatori di classe, adesso - disse - ed io ho persino il coraggio di mangiare i vermi. Insieme discesero attraverso il sottobosco scricchiolante fino alle sponde del fiume ed alle secche sabbiose che serpeggiavano in tutte le direzioni. - L'acqua non può durare a lungo - osservò Baloo, raggiungendoli. - Guardate l'altra riva. Si sono formati dei sentieri che sembrano le strade dell'uomo. Sulla pianura uniforme che si stendeva sull'altra riva, l'erba inaridita della Jungla era rimasta dritta, come se, morendo, si fosse mummificata. Le piste battute dai cervi e dai cinghiali, tutte rivolte al fiume, avevano tracciato sulla pianura senza colore dei solchi polverosi, scavati fra l'erba alta dieci piedi, e, per quanto fosse buon mattino, ognuno dei lunghi solchi appariva già affollato dai primi animali che si affrettavano verso l'acqua. Si potevano sentire le cerve ed i loro piccoli tossire per la polvere impalpabile come il tabacco da fiuto. A monte, vicino all'ansa formata dallo stagnare dell'acqua intorno alla Rupe della Pace, stava il Guardiano della Tregua dell'Acqua, Hathi l'Elefante Selvatico, sotto il chiaro di luna, con i suoi figli magri e grigi, che si dondolavano in qua e in là senza posa. Un poco al di sotto stava l'avanguardia dei cervi; ancor più giù i cinghiali ed i bufali; la riva opposta, dove gli alti alberi scendevano fino al pelo dell'acqua, era il luogo riservato ai Carnivori - la tigre, i lupi, la pantera, l'orso e gli altri. - Siamo davvero tutti sotto una stessa Legge - disse Bagheera entrando nell'acqua e guardando dall'altra parte la lunga fila di corna cozzanti e di occhi sbarrati dei cervi e dei cinghiali che si spingevano avanti e indietro. - Buona caccia a tutti voi del mio sangue! - disse stendendosi in tutta la sua lunghezza con il fianco fuor dell'acqua; e aggiunse fra i denti: - Se non fosse per la Legge, che caccia eccellente si potrebbe fare! Gli orecchi tesi dei cervi colsero le ultime parole e un fremito di terrore serpeggiò lungo le file. La Tregua! Ricordati la Tregua! - Pace, là, pace! - gorgogliò Hathi, l'Elefante Selvatico. - La tregua continua, Bagheera! Non è questo il momento di parlare di caccia. - Chi potrebbe saperlo meglio di me? - rispose Bagheera, volgendo i suoi occhi gialli verso la corrente. - Sono diventata una mangiatrice di tartarughe e una pescatrice di ranocchi. "Ngaayah"! Magari potessi saziarmi masticando i rami! - Lo vorremmo anche noi di tutto cuore - belò un cerbiatto nato quella primavera, al quale simili discorsi non piacevano affatto. Malgrado la terribile situazione del Popolo della Jungla, anche Hathi non poté fare a meno di sorridere a Mowgli, appoggiato sui gomiti nella corrente tiepida, scoppiò a ridere e batté l'acqua coi piedi, facendo schizzare la schiuma. - Benedetto, piccolo dalle corna appena nascenti - ronfò Bagheera. - Quando la tregua cesserà ce ne ricorderemo in tuo favore. - E aguzzò lo sguardo nell'oscurità per essere certa di riconoscere il cerbiatto al momento buono. A poco a poco la conversazione si fece generale in tutti gli abbeveratoi. Si sentiva il cinghiale sbuffare chiedendo più spazio, i bufali che grugnivano brontolando nell'attraversare i banchi di sabbia, e i cervi che raccontavano storie pietose delle loro lunghe marce sui piedi indolenziti, in cerca di cibo. Ogni tanto rivolgevano qualche domanda ai Carnivori attraverso il fiume, ma tutte le notizie erano cattive; e il vento infuocato della Jungla soffiava tra le rocce ed i rami e scagliava nell'acqua polvere e fuscelli. - Anche gli uomini muoiono vicino all'aratro - disse un giovane "sambhur". (Razza di cervo indiano. Nota del traduttore) - Ne ho visti tre fra il tramonto e la notte. Giacevano immobili accanto ai loro buoi. Fra poco giaceremo immobili anche noi. - Il fiume si è abbassato da ieri notte - disse Baloo. - O Hathi, hai mai visto un'altra siccità come questa? - Passerà, passerà! - rispose Hathi, schizzandosi acqua sul dorso e sui fianchi. - Qui c'è qualcuno che non può sopportarla a lungo - disse Baloo, volgendo lo sguardo verso il fanciullo che amava. - Io? - chiese Mowgli indignato, rizzandosi a sedere nell'acqua. - Io non ho il pelo lungo, che mi copra le ossa... ma se a te si togliesse di dosso la pelliccia, Baloo... Hathi si scosse tutto a quell'idea, e Baloo disse severamente: - Cucciolo d'Uomo, non è questo il modo di parlare al Maestro della Legge. Nessuno mi ha veduto mai senza pelliccia. - Via, non volevo offenderti, Baloo; volevo solo dirti che tu somigli alla noce di cocco nel suo guscio, mentre io sono la stessa noce di cocco senza guscio. Ora quel tuo guscio bruno... Mowgli stava seduto con le gambe incrociate e spiegava le cose con l'indice teso come d'abitudine, quando Bagheera gli allungò una zampata morbida e lo rovesciò supino nell'acqua. - Peggio che mai - disse la Pantera Nera, mentre il ragazzo si alzava sputacchiando. - Prima dici che Baloo deve essere scorticato, poi che somiglia a una noce di cocco. Bada che non faccia come le noci di cocco mature. - E cioè? - chiese Mowgli, colto alla sprovvista, benché questo sia uno dei più vecchi scherzi della Jungla. - Rompono la testa - rispose Bagheera tranquillamente, ricacciandolo sott'acqua. - Non sta bene prendere in giro il tuo maestro - disse l'orso, quando Mowgli fu messo sotto per la terza volta. - Non sta bene! Ma che volete farci? Quel cosino nudo che corre su e giù si fa beffe anche di quelli che furono valenti cacciatori, e per divertirsi tira persino i baffi ai migliori fra noi! - Era Shere Khan, la Tigre Zoppa, che scendeva zoppicando verso l'acqua. Attese un momento per godersi l'effetto della sua comparsa sui cervi della sponda opposta; poi abbassò la testa quadrata e barbuta, e cominciò a lambire l'acqua brontolando: - La Jungla è ridotta a un canile per cuccioli nudi. Guardami, Cucciolo d'Uomo! Mowgli guardò, o meglio fissò la tigre con tutta l'insolenza di cui era capace, e dopo un attimo quella distolse lo sguardo, sentendosi a disagio. - Cucciolo d'Uomo qua e Cucciolo d'Uomo là! - ringhiò continuando a bere. - Il cucciolo non è né uomo né cucciolo, perché altrimenti avrebbe avuto paura. La stagione ventura dovrò chiedergli anche il permesso di bere. "Augrh"! - Può essere - soggiunse Bagheera, fissandola negli occhi. - Può essere! Puah, Shere Khan! Che nuova vergogna ci hai portato? La Tigre Zoppa aveva tuffato il mento e la gola nell'acqua, e larghe macchie scure e oleose si erano formate sulla corrente. - L'Uomo! - rispose Shere Khan freddamente. - Ho ucciso un uomo un'ora fa! - E continuò a ronfare e a brontolare fra sé. La linea delle belve fremette e ondeggiò, e poi si levò un mormorìo che crebbe sino a un grido: - L'Uomo! l'Uomo! Ha ucciso l'Uomo! Allora tutti guardarono verso Hathi, l'Elefante Selvatico, ma questi parve non aver udito. Hathi non fa mai una cosa prima che ne sia giunto il momento e questa è una delle ragioni per cui vive così a lungo. - Ammazzare l'Uomo in una stagione simile! Non c'era altra selvaggina? - chiese Bagheera con disgusto, uscendo dalle acque insudiciate e scuotendo una zampa dopo l'altra come fanno i gatti. - Ho ucciso per mio piacere, non per procurarmi il cibo. Il mormorio d'orrore ricominciò, e il piccolo bianco occhio vigile di Hathi si fissò su Shere Khan. - Per mio piacere! - ripeté compiaciuto Shere Khan. - E adesso sono venuto a bere e a ripulirmi. C'è qualcosa che me lo vieta? Il dorso di Bagheera cominciò ad inarcarsi come un bambù sotto una raffica di vento, ma Hathi alzò la proboscide e domandò calmo: - Hai ucciso per tuo piacere? Quando Hathi fa una domanda è meglio rispondergli. - Proprio così. Era il mio diritto ed era la mia notte. Tu lo sai, Hathi. - Shere Khan aveva risposto quasi cortesemente. - Sì, lo so - rispose Hathi; poi, dopo un breve silenzio: - Hai bevuto abbastanza? - Per questa notte, sì! - Allora vattene! Il fiume serve per bere e non deve essere sporcato. Nessuno, tranne la Tigre Zoppa, avrebbe proclamato il suo diritto in un tempo come questo, quando... quando tutti soffriamo, l'Uomo e il Popolo della Jungla. Pulito o sudicio che tu sia, fila al tuo covo, Shere Khan! Le ultime parole risonarono come squilli di trombe d'argento, e i tre figli di Hathi fecero un passo avanti, quantunque non ce ne fosse bisogno. Shere Khan se la svignò senza protestare, perché sapeva, come tutti sanno, che, alla resa dei conti, il vero padrone della Jungla è Hathi. - Che cos'è il diritto di cui parla Shere Khan? - sussurrò Mowgli all'orecchio di Bagheera. - Ammazzare l'Uomo è sempre una vergogna. Lo dice la Legge; eppure Hathi ha detto... - Chiedilo a lui: io non lo so, Fratellino. Diritto o non diritto, se Hathi non avesse parlato, gliel'avrei data io una lezione a questo macellaio zoppo. Arrivare alla Rupe della Pace, fresco dell'uccisione di un uomo, e vantarsene anche... è proprio comportarsi da sciacallo. Per di più ha insozzato l'acqua buona. Mowgli attese un minuto per farsi coraggio, perché nessuno osava rivolgersi direttamente ad Hathi, poi gridò: - Qual è il diritto di Shere Khan, o Hathi? Le due rive rimandarono l'eco delle sue parole, perché tutto il Popolo della Jungla è molto curioso e aveva proprio allora visto qualcosa che nessuno, eccettuato Baloo, che sembrava soprappensiero, aveva capito. - E' una vecchia storia, - cominciò Hathi - una storia più vecchia della Jungla. Fate silenzio sulle due rive e vi racconterò questa storia. Ci fu un minuto o due di spinte e di mormorii fra i cinghiali ed i bufali, poi i capi dei branchi grugnirono uno dopo l'altro: - Aspettiamo. Hathi avanzò nell'acqua fino al ginocchio, nello stagno intorno alla Rupe della Pace. Magro, rugoso, con le zanne ingiallite, egli aveva pur sempre l'aspetto del padrone della Jungla. - Voi sapete, ragazzi - cominciò - che la cosa che voi temete di più è l'Uomo. - Vi fu un mormorìo di assenso. - Questa storia ti riguarda, Fratellino - disse Bagheera a Mowgli. - Me? Ma io sono del Branco, un cacciatore del Popolo Libero - Mowgli rispose. - Che cosa ho da fare io con l'Uomo? - E sapete voi perché temete l'Uomo? - continuò Hathi. - La ragione è questa. Agli inizi della Jungla, e nessuno sa quando ciò accadesse, noi della Jungla vagavamo insieme senza aver timore uno dell'altro. In quei tempi non vi era siccità e i fiori, le foglie e i frutti crescevano sullo stesso albero e noi ci nutrivamo soltanto di foglie, fiori, erbe, frutti e scorze. - Sono contenta di non essere nata a quei tempi - mormorò Bagheera. - La scorza serve solo ad affilare gli artigli. - Il Padrone della Jungla era Tha, il Primo Elefante. Egli trasse fuori la Jungla dalle acque profonde con la sua proboscide; e dove tracciò solchi nel terreno con le zanne, corsero i fiumi; e dove batté col piede scaturirono sorgenti d'acqua buona; e quando soffiò con la proboscide - così - caddero gli alberi. Questo fu il modo che Tha usò per creare la Jungla. Così mi è stato raccontato. - Il racconto non ha perduto sugo nel narrarlo - sussurrò Bagheera all'orecchio di Mowgli, che rise coprendosi la bocca con la mano. - In quei tempi non vi era grano, né meloni, né pepe, né canna da zucchero, come non vi erano le piccole capanne che voi tutti avete visto: e il Popolo della Jungla non sapeva nulla dell'Uomo, ma viveva unito nella Jungla, formando un popolo solo. Ma presto cominciò a litigare per il cibo, quantunque ci fosse da pascolare a sufficienza per tutti. Era pigro: ognuno voleva trovar da mangiare dove stava, come facciamo qualche volta anche noi, quando le piogge di primavera sono buone. Tha, il Primo Elefante, era occupato a formar nuove jungle ed a guidare i fiumi nei loro letti. Non poteva, però, trovarsi dappertutto, e così fu che creò la Prima Tigre, padrona e giudice della Jungla e tutti i popoli della Jungla dovevano sottoporle i loro litigi. In quei tempi la Prima Tigre mangiava frutti ed erbe come gli altri. Era grande come me e bellissima, e tutta di un colore come i boccioli della liana gialla. Non aveva né striature né macchie sul dorso in quegli antichi tempi in cui la Jungla era nuova. Tutto il Popolo della Jungla si presentava a lei senza timore, e la sua parola era legge per tutta la Jungla. Perché allora, ricordatevelo, eravamo un popolo solo. - Poi una sera scoppiò una lite fra due caprioli - una lite per un pascolo, di quelle che voi ora regolate a calci e a cornate - e si dice che mentre i due stavano parlando davanti alla Prima Tigre, allungata in mezzo ai fiori, un daino l'urtò con le corna; allora la Prima Tigre dimenticò d'essere padrona e giudice della Jungla e, saltando addosso al daino, gli spezzò il collo. - Fino a quella notte nessuno di noi era morto, e la Prima Tigre, vedendo quello che aveva fatto, resa pazza dall'odore del sangue, fuggì nella palude del Nord e noi della Jungla, rimasti senza giudice, finimmo per combattere fra noi; e Tha sentì il rumore della lotta e tornò indietro. Allora qualcuno fra noi raccontò le cose in un modo, e qualcuno in un altro, ma Tha vide il daino morto in mezzo ai fiori e chiese chi l'aveva ucciso; noi della Jungla non volevamo rispondere, perché l'odore del sangue ci faceva impazzire. Correvamo avanti e indietro, giravamo, saltavamo, gridavamo crollando il capo. Tha allora comandò agli alberi che pendevano bassi e alle liane cascanti della Jungla di marcare l'assassino del daino, perché egli lo potesse riconoscere, e poi disse: «Chi sarà ora il padrone del Popolo della Jungla?». Allora si fece avanti la Scimmia Grigia che vive fra i rami dicendo: «Sarò io, adesso, il padrone della Jungla». A quest'uscita Tha scoppiò a ridere e decise: «Ebbene sia così!» e se ne andò in gran collera. - Figli miei, voi conoscete la Scimmia Grigia. Era allora quella che è adesso. Sulle prime si compose una maschera di serietà, ma tosto cominciò a grattarsi e a saltare su e giù, e, quando Tha ritornò, trovò la Scimmia Grigia penzoloni da un ramo, col capo all'ingiù, intenta a beffarsi di quelli che stavano sotto: e quelli la beffeggiavano a loro volta. Così avvenne che non ci fu più Legge nella Jungla: solo chiacchiere insulse e parole insensate. - Tha ci convocò allora tutti insieme e disse: «Il primo dei vostri padroni ha portato nella Jungla la Morte e il secondo la Vergogna. E' tempo ormai che vi sia una Legge, e una Legge che non possiate infrangere. Ora voi conoscete la Paura e, quando l'avrete trovata, capirete che quella è la vostra padrona, e il resto verrà da sé». Noi della Jungla chiedemmo allora: «Che cos'è la Paura?». E Tha rispose: «Cercate fino a quando la troverete». - Così ci mettemmo a correre su e giù per la Jungla, in cerca della Paura, finché un giorno i bufali... - Ugh! - fece Mysa, il capo dei bufali, dal loro banco di sabbia. - Sì, Mysa, furono i bufali che ritornarono portando la notizia che, in una caverna della Jungla, stava la Paura, che non aveva pelo e camminava reggendosi sulle zampe posteriori. Allora noi della Jungla seguimmo l'armento, finché raggiungemmo la caverna: la Paura era sulla soglia ed era proprio senza pelo, come avevano detto i bufali, e camminava ritta sulle zampe posteriori. Quando ci vide si mise ad urlare; la sua voce ci riempì di quel terrore che ci assale anche ora quando la udiamo, e fuggimmo via calpestandoci e ferendoci gli uni con gli altri perché avevamo paura. Quella notte, mi è stato detto, noi della Jungla non ci coricammo tutti insieme, come era nostra abitudine, ma ogni tribù si ritirò per proprio conto, - il cinghiale col cinghiale, il cervo col cervo, corno contro corno, zoccolo contro zoccolo - ognuno accanto al proprio simile e così ci coricammo nella Jungla tutti tremanti. - Solo la Prima Tigre non era con noi, perché si teneva ancora nascosta nelle paludi del Nord, e quando le giunse la notizia della Cosa che avevamo visto nella caverna, disse: «Andrò io da quella Cosa e le romperò il collo». - Corse tutta la notte, finché arrivò alla caverna; ma gli alberi e le liane sul suo sentiero, ricordando gli ordini avuti da Tha, abbassarono i loro rami, mentre essa correva e la marcarono con le dita sul dorso, sui fianchi, sulla fronte e sulla gola. Dove la toccavano si formava una macchia o una striatura sul pelo giallo. "E queste sono le strisce che portano ancora oggi i suoi figli!" Quando la tigre arrivò alla caverna, la Paura, l'Essere senza Pelo, alzò il braccio nella sua direzione e la chiamò "la Striata che viene di notte". Allora la Prima Tigre ebbe paura dell'Essere senza Pelo, e fece ritorno ululando alle paludi. Mowgli immerso, nell'acqua fino al mento, sorrise in silenzio. - Aveva ululato così forte, che Tha la sentì e disse: «Che cosa ti angustia?». La Prima Tigre, alzando il muso verso il cielo, che allora era appena fatto ed ora è così vecchio, disse: «Restituiscimi il mio potere, o Tha! Io sono stata svergognata davanti a tutta la Jungla, perché sono fuggita via dall'Essere senza Pelo, ed egli mi ha chiamato con un nome ingiurioso!». «E perché?» chiese Tha. «Perché sono tutta sporca del fango delle paludi» rispose la Prima Tigre. «Bàgnati allora, e ròtolati sull'erba umida, e se è fango se ne andrà!» ordinò Tha, e la Prima Tigre si buttò a nuoto e si rotolò a lungo in mezzo all'erba, fino a quando la Jungla prese a girare vorticosamente intorno agli occhi; ma neppure la minima striatura scomparve dalla sua pelliccia e Tha rise nel guardarla. Allora la Prima Tigre chiese: «Che cosa ho fatto perché mi accada questo?». E Tha: «Tu hai ucciso il daino, e hai fatto entrare la Morte nella Jungla, e con la Morte è venuta la Paura, così che nel Popolo della Jungla tutti si temono a vicenda e tu hai paura a tua volta dell'Essere senza Pelo». La Prima Tigre disse: «Nessuno avrà mai paura di me, perché mi conoscono fin dal principio». «Va' a vedere» rispose Tha. La Prima Tigre corse su e giù, chiamando a voce alta il cervo, il cinghiale, il "sambhur", il porcospino e tutto il Popolo della Jungla, ma tutti fuggirono lontano da quello che era stato il loro giudice, perché avevano paura. - Allora la Prima Tigre tornò indietro, e il suo orgoglio era spezzato; e chinato il capo fino a terra, straziò il terreno con le zampe e disse: «Ricòrdati che io fui un tempo il padrone della Jungla. Non dimenticarti di me, o Tha! Fa' che i miei figli non dimentichino che io fui un tempo senza vergogna e senza paura!». «Lo farò - rispose Tha - perché tu ed io vedemmo insieme nascere la Jungla. Per una notte ogni anno per te e per i tuoi figli sarà come prima che fosse ucciso il daino. In quella notte, se incontrerete l'Essere senza Pelo, e il suo nome è Uomo, non ne avrete paura, ma lui avrà paura di voi, come se voi foste ancora i giudici della Jungla e i padroni di tutte le cose. In quella notte abbi pietà della sua paura, perché anche tu hai conosciuto che cosa sia la Paura». - Al che la Prima Tigre rispose: «Sono contenta!». Ma quando, andando a bere, si vide di nuovo le strisce nere sul dorso e sui fianchi ricordò il nome che le aveva dato l'Essere senza Pelo e si sentì di nuovo assalita dal furore. Per un anno visse nelle paludi, attendendo che Tha mantenesse la sua promessa. Ed una notte, quando lo Sciacallo della Luna (la Stella della Sera) brillò chiaro sulla Jungla, sentì che la sua Notte era giunta e si diresse verso le caverne per incontrare l'Essere senza Pelo. Avvenne allora quello che Tha aveva promesso, e l'Essere senza Pelo cadde davanti a lei e giacque sul terreno: la Prima Tigre gli fu sopra e gli spezzò la schiena, perché credeva che quello fosse l'unico Essere del genere in tutta la Jungla e che con lui avesse uccisa la Paura. Poi, mentre annusava la vittima, sentì giungere Tha dai boschi del Nord ed improvvisamente la voce del Primo degli Elefanti, la stessa voce che noi ora udiamo... Il tuono brontolava in lontananza tra le colline bruciate, ma non portava pioggia; erano solo lampi di calore che balenavano sopra le creste. Hathi continuò: - Quella era la voce che la Prima Tigre sentì e che le chiese: «E' questa la tua pietà?». La Prima Tigre si leccò i baffi e rispose: «Che importa? Io ho ucciso la Paura!». E Tha: «O cieca e sciocca! Tu hai sciolto i Piedi della Morte ed essa seguirà le tue orme fino a quando tu morrai. Tu hai insegnato all'Uomo ad uccidere!». - La Prima Tigre, stando ostinata accanto alla sua vittima, disse: «Egli è com'era il daino. Non esiste più la Paura. Ora io tornerò a giudicare come un tempo il Popolo della Jungla». Tha replicò: «Mai più verrà a te il popolo della Jungla. Mai più esso attraverserà le tue peste, né ti dormirà vicino, né ti seguirà, né verrà a pascolare presso la tua tana. Solo la Paura ti seguirà, e con un colpo che tu non potrai vedere, ti costringerà ad attendere il suo capriccio. Farà aprire il terreno sotto i tuoi piedi e serrare il tuo collo dalle liane e ti farà crescere intorno i tronchi d'albero tanto alti, che tu non li potrai superare con un balzo, e infine prenderà la tua pelliccia per avvolgere i suoi piccoli, quando avranno freddo. Tu non hai avuto pietà di lei, e lei non ne avrà mai per te». - La Prima Tigre si sentiva baldanzosa, perché la sua Notte durava tuttora, e disse: «La promessa di Tha è la promessa di Tha! Egli non vorrà ritogliermi la mia notte!». «La notte è tua - rispose Tha - come ho detto, ma devi pagare un prezzo. Tu hai insegnato all'Uomo ad uccidere ed egli non è tardo ad imparare». - La Prima Tigre osservò: «Egli è qui sotto le mie zampe e la sua schiena è spezzata. Fa' sapere alla Jungla che ho ucciso la Paura». Ma Tha rispose ridendo: «Tu ne hai ucciso uno solo fra i molti, ma questo potrai dirlo tu stessa alla Jungla, perché la tua Notte è finita». - Spuntava il giorno e dalla bocca della caverna uscì un altro Essere senza Pelo, e vide sul sentiero l'ucciso e la Prima Tigre sopra di lui, e prese un bastone aguzzo... - Adesso lanciano una cosa che taglia, però! - brontolò Ikki, urtando l'argine con gli aculei; perché Ikki era considerato un boccone prelibato dai Gonds (che lo chiamano Ho-Igoo) ed egli ne sapeva qualcosa della maledetta piccola scure gondese, che frulla attraverso la radura come una libellula. - Era un bastone appuntito, come quello che mettono in fondo alle trappole - continuò Hathi. - E, scagliandolo, egli colpì la Prima Tigre profondamente nel fianco. E così accadde quello che Tha aveva predetto, e la Prima Tigre corse urlando su e giù nella Jungla, fino a quando riuscì ad estrarsi il bastone dal fianco; tutta la Jungla seppe così che l'Essere senza Pelo poteva colpire anche da lontano e la Paura fu maggiore di prima. Così accadde che la Prima Tigre insegnò ad uccidere all'Essere senza Pelo (e voi sapete quanto male egli ha fatto da allora a tutto il nostro Popolo) col laccio, col trabocchetto, con la trappola nascosta, col bastone volante e la mosca pungente che esce dal fumo bianco (Hathi intendeva la pallottola di fucile) e il Fiore Rosso, che ci caccia fuori dai nostri rifugi. Però, per una notte all'anno, l'Essere senza Pelo teme la Tigre, secondo la promessa di Tha, e la Tigre non gli ha mai dato modo di temerla meno. Dove lo trova, la Tigre lo uccide, ricordando come la Prima Tigre fu svergognata. Per tutto il resto dell'anno, la Paura si aggira per la Jungla di giorno e di notte. - "Ahi! Aoo!" - disse il cervo, pensando a ciò che quelle parole significavano per lui. - Solo quando c'è una grande Paura che sovrasta tutti come adesso, noi della Jungla possiamo metter da parte i nostri piccoli timori e radunarci tutti insieme in un solo posto come ora facciamo. - Solo per una notte l'Uomo teme la Tigre? - chiese Mowgli. - Solo per una notte - rispose Hathi. - Ma io... ma noi... ma tutta la Jungla sa che Shere Khan uccide l'Uomo due o tre volte in una stessa luna. - E' vero, ma allora lo assale da dietro e, mentre lo colpisce, volge la testa da un lato, perché è piena di paura. Se l'Uomo la guardasse, essa fuggirebbe. Ma quando viene la sua Notte, essa scende apertamente sino al villaggio, si aggira fra le case, caccia la testa entro le porte, gli uomini cadono col viso a terra e allora essa uccide. Ma in quella Notte non uccide che una sola volta. - Oh! - fece Mowgli, come parlando fra sé, rotolandosi nell'acqua. - Adesso capisco perché Shere Khan mi ha detto di guardarlo. Non gli è servito a nulla, perché non è riuscito a tener fissi gli occhi e... e certamente io non sono caduto ai suoi piedi. E' però vero che io non sono un uomo, perché faccio parte del Popolo Libero. - Uhm! - fece Bagheera dal fondo della sua gola pelosa. - Sa la Tigre quale sia la sua Notte? - No, fino a quando lo Sciacallo della Luna esce brillante dalla nebbia della sera. Qualche volta l'unica notte della Tigre cade durante la stagione secca e qualche volta nella stagione delle piogge. Ma senza la Prima Tigre non ci sarebbe mai stata, e nessuno di noi avrebbe conosciuto la Paura. I cervi bramirono tristemente e le labbra di Bagheera si contrassero in un cattivo sorriso: - Ma gli Uomini conoscono questa storia? - domandò. - Nessuno la conosce all'infuori della Tigre e di noi elefanti, figli di Tha. Ora tutti voi che siete riuniti presso le pozze l'avete intesa; ho detto - ed Hathi immerse la proboscide nell'acqua per significare che non aveva più voglia di parlare. - Ma... ma... ma... - disse Mowgli, volgendosi a Baloo. - Perché la Prima Tigre non ha continuato a mangiare erbe e foglie e arbusti? Essa aveva soltanto spezzato il collo al capriolo, non l'aveva divorato. Che cosa la indusse ad assaggiare la carne ancor calda? - Gli alberi e le liane l'avevano segnata, Fratellino, lasciandole addosso le striature che conosciamo. Mai più volle mangiare dei loro frutti, ma da quel giorno si vendicò sui cervi e sugli altri Mangiatori di Erbe - rispose Baloo. - Tu la conoscevi dunque questa storia! Perché non me l'hai mai raccontata? - chiese Mowgli. - Perché la Jungla è piena di storie del genere. Se cominciassi a raccontare non la finirei più. Lasciami stare l'orecchio, Fratellino. "La Legge della Jungla". Solo per darvi un'idea dell'enorme varietà della Legge della Jungla, ho tradotto in versi (Baloo le recitava sempre con una specie di cantilena) alcune delle leggi che si applicano ai lupi. Ce ne sono, naturalmente, ancora centinaia e centinaia, ma queste serviranno come esempio per le regole più semplici. "Ora è questa la Legge della Jungla - antica e vera come il cielo; il Lupo che l'osserverà avrà vita prospera, ma il Lupo che la violerà dovrà morire. Come la liana circonda il tronco dell'albero, la Legge abbraccia il futuro e il passato - perché la forza del Branco è il Lupo, e la forza del Lupo è il Branco." Làvati ogni giorno dalla punta del naso alla punta della coda; bevi abbondantemente, ma mai troppo; ricorda che la notte è per cacciare, e non dimenticare che il giorno è per dormire. Lo Sciacallo può seguire la Tigre, ma, Cucciolo, quando i tuoi baffi saranno cresciuti, ricorda che il Lupo è un cacciatore - va' avanti e procurati il cibo da solo. Sta' in pace con i Signori della Jungla: la Tigre, la Pantera e l'Orso; non disturbare Hathi il silenzioso, e non schernire il Cinghiale nella sua tana. Quando due Branchi si incontrano nella Jungla e né l'uno né l'altro vogliono allontanarsi dal sentiero, accucciati finché i capi non hanno parlato - forse prevarranno le sagge parole. Quando ti batti con un Lupo del Branco, devi farlo lontano e da solo, perché gli altri non prendano parte alla questione e il Branco non si riduca per la lotta. La Tana del Lupo è il suo rifugio, e dove si è fatto la sua casa neppure il Capo dei Lupi può entrare, neppure il Consiglio può venire. La Tana del Lupo è il suo rifugio, ma se l'è scavata troppo in vista il Consiglio gli manderà un messaggio ed egli dovrà cambiarla. Se uccidi prima di mezzanotte, sii silenzioso e non svegliare il bosco col tuo ululato per non far scappare il cervo dal seminato e perché i fratelli non rimangano a digiuno. Puoi uccidere per te, per la tua compagna e per i tuoi cuccioli, se ne hai bisogno e se ne hai la forza; ma non uccidere per il piacere di uccidere, e ricordati "sette volte di non uccidere mai l'Uomo." Se sottrai la preda ad uno più debole, non divorare tutto per vanto: la Legge del Branco gli concede il diritto minimo; lasciagli quindi la testa e la pelle. Quel che il Branco ha ucciso è il pasto del Branco. Deve mangiarlo sul posto, e nessuno può portarselo nella sua tana, pena la morte. Quel che il Lupo ha ucciso è il pasto del Lupo. Può farne ciò che vuole e, finché non avrà dato il permesso, il Branco non può mangiare questa preda. Il diritto del Cucciolo di un anno è di esigere da ogni Lupo del suo Branco, quando ha mangiato, una razione di cibo e nessuno può rifiutargliela. Il diritto della Tana è il diritto della Madre. Può chiedere a tutti i lupi adulti un'anca di ogni animale ucciso per i suoi piccoli, e nessuno può negargliela. Il diritto del Covo è il diritto del Padre - cacciare da solo e per se stesso; è dispensato da tutte le chiamate al Branco; è giudicato solo dal Consiglio. Grazie alla sua età e alla sua astuzia, alla forza della sua stretta e della sua zampa, in tutto ciò che la Legge non ha disposto, la parola del Capo del Branco è legge. "Ora queste sono le Leggi della Jungla, e sono numerose e potenti; ma la testa e lo zoccolo della Legge, il suo fianco e la sua gobba è: Obbedisci!" 2. IL MIRACOLO DI PURUM BHAGAT. La notte in cui capimmo che la terra si sarebbe mossa ci accostammo furtivamente a lui e lo tirammo per la mano perché l'amavamo con l'amore che sa ma che non può capire. E quando il lato della collina franò con un rombo e tutto il nostro mondo si abbatté nella pioggia lo salvammo noi, la Piccola Gente; ma ahimè! non è tornato indietro! Piangete ora, noi l'abbiamo salvato per questo povero amore che anche le creature selvagge provano. Piangete! Il nostro fratello non si sveglierà, e i suoi simili ci cacciano indietro! "Canto funebre dei Langurs". C'era una volta in India un uomo che era primo ministro di uno degli Stati Indigeni semi-indipendenti, nella parte nord occidentale del paese. Era un Bramino, di casta così alta che la casta stessa aveva perduto per lui qualsiasi particolare significato; suo padre era stato un importante funzionario in mezzo alla canaglia allegra e variopinta che costituiva una corte indiana all'antica. Ma, col volger degli anni, Purun Dass comprese che il vecchio ordine di cose si andava mutando, e che se un uomo voleva farsi strada nel mondo doveva andar d'accordo con gli Inglesi, e scimmiottare tutto quanto gli Inglesi ritenevano buono. Nello stesso tempo un funzionario indigeno doveva conservarsi il favore del proprio sovrano. Era una partita difficile da giocare, ma il calmo e taciturno giovane Bramino, aiutato da una buona educazione inglese ricevuta all'Università di Bombay, seppe destreggiarsi con freddezza, e, di gradino in gradino, riuscì a diventare Primo Ministro del Regno. Il che significa che egli deteneva in realtà un potere più effettivo del Marajà, suo padrone. Quando il vecchio re, che diffidava degli Inglesi, delle loro ferrovie e dei loro telegrafi, venne a morte, Purun Dass rimase in auge con il suo giovane erede, che era stato educato da un Inglese; e tutti e due insieme - quantunque Purun avesse sempre cura di lasciarne il merito al suo sovrano - fondarono scuole per bambini, costruirono strade e promossero dispensari governativi ed esposizioni agricole, pubblicando ogni anno un «libro azzurro» sul «Progresso Morale e Materiale dello Stato», così che il Ministro degli Esteri e il Governo dell'India ne furono pienamente soddisfatti. Pochissimi Stati indigeni adottano senza riserva i metodi inglesi di progresso, perché non credono, al contrario di Purun Dass, che tutto quanto è buono per un Inglese, lo sia anche e in doppia misura per un Asiatico. Il Primo Ministro divenne l'amico molto stimato di Vicerè, Governatori, Vicegovernatori, di missioni sanitarie e religiose, di brillanti ufficiali inglesi di cavalleria, che venivano a cacciare nelle riserve dello Stato, come pure di veri eserciti di turisti, che percorrevano l'India in tutti i sensi durante la stagione fredda, insegnando a tutti come andavano sistemate le faccende. Nel tempo che gli rimaneva, egli provvedeva a istituire borse di studio per la medicina o per le industrie manifatturiere, con criteri rigorosamente inglesi, e a mandare corrispondenze al "Pioniere", il più importante quotidiano dell'India, illustrando i piani e gli obiettivi del suo sovrano. Infine si recò a visitare l'Inghilterra, e al suo ritorno dovette pagare somme enormi ai sacerdoti, perché anche un Bramino di casta elevata come Purun Dass perde i suoi privilegi di casta quando attraversa il mare impuro. A Londra si incontrò e discusse con tutte le personalità più notevoli - uomini la cui fama correva il mondo intero - e osservò molte più cose di quante poi raccontasse. Gli furono conferiti titoli onorifici da dotte Università, tenne delle conferenze e parlò della riforma sociale dell'India a dame inglesi in abito da sera, finché tutta Londra proclamò con entusiasmo: «Questo è l'uomo più affascinante che si sia incontrato nei banchetti da quando si è cominciato a stendere le tovaglie sui tavoli». Quando ritornò in India fu circonfuso d'un'aureola di gloria, poiché lo stesso Vicerè si recò apposta a conferire al Marajà la Gran Croce della Stella dell'India, tutta nastri, diamanti e smalti; e, durante la stessa cerimonia, mentre il cannone tuonava a salve, Purun Dass fu creato Commendatore dell'Ordine dell'Impero Indiano, cosicché il suo nome divenne «Sir Purun Dass K.C.I.E.». Quella sera, al banchetto sotto l'ampia tenda del Vicerè, egli, col petto fregiato della sciarpa e del collare dell'Ordine, si alzò a rispondere al brindisi fatto alla salute del suo sovrano e pronunziò un discorso che pochi Inglesi avrebbero potuto pronunziar meglio. Il mese seguente, quando la città piombò nel suo silenzio arroventato, fece quello che nessun Inglese si sarebbe sognato di fare: e cioè morì al mondo e agli affari. Le insegne preziose del suo Ordine cavalleresco furono restituite al Governo Indiano: fu nominato un nuovo Primo Ministro per il disbrigo degli affari, e un'animata caccia ai posti si aprì negli uffici subalterni. I sacerdoti sapevano quel che era accaduto e il popolo lo supponeva: ma l'India è l'unico paese del mondo in cui un uomo può fare quel che gli piace e nessuno gliene chiede conto; e il fatto che Sir Purun Dass K.C.I.E. avesse rinunciato alla carica, al palazzo, al potere e preso invece la ciotola del mendicante e il giallo mantello di un Sunnyasi, o santone, non fu considerato per nulla straordinario. Egli era stato, come raccomanda l'Antica Legge, per vent'anni giovane, per vent'anni combattente, per quanto non avesse mai portato un'arma in vita sua, e per vent'anni capo famiglia. Si era servito delle sue ricchezze e del suo potere per il loro giusto valore; aveva accettato gli onori incontrati sul suo cammino; aveva veduto uomini e città vicine e lontane, e gli uomini e le città si erano levate ad onorarlo. Ora avrebbe abbandonato tutto questo, come un uomo che lascia cadere il mantello di cui non ha più bisogno. Dietro di lui, mentre usciva dalle porte della città con una pelle d'antilope e una gruccia con l'impugnatura di ottone sotto il braccio, una scura ciotola da mendicante di "coco-de-mer" in mano, scalzo, solitario, con lo sguardo fisso al suolo - dietro di lui rimbombavano le salve dei cannoni che salutavano il suo fortunato successore. Purun Dass crollò il capo. Quel genere di vita era finito per lui ed egli non ne serbava maggior rancore o maggior rimpianto di quello che si può provare per un sogno incolore di una notte. Era ormai un Sunnyasi, un mendicante ramingo o vagabondo, alla mercè del suo prossimo per il pane quotidiano; e fino a quando ci sarà in India un boccone da dividere, né il sacerdote, né il mendico morranno di fame. Non aveva mai assaggiato carne nella sua vita e molto raramente pesce. Una banconota di cinque sterline sarebbe bastata a coprire la sua spesa personale per il vitto in uno qualunque dei molti anni in cui era stato padrone assoluto di milioni. Anche mentre era festeggiato a Londra, era stato sempre presente ai suoi occhi questo sogno di pace e di quiete - le lunghe, bianche, polverose strade dell'India, stampate di impronte di piedi nudi, con l'incessante lento traffico e l'odore acre del fumo dei fuochi accesi nel crepuscolo sotto gli alberi di fico, dove i viandanti siedono a consumare il pasto della sera. Quando fu giunto il momento di tradurre il sogno in realtà, il Primo Ministro prese le misure necessarie e, nello spazio di tre giorni, sarebbe stato più facile trovare una goccia d'acqua fra le onde dell'Oceano Atlantico, che Purun Dass fra i milioni di uomini che nell'India vanno, vengono, si ritrovano e si disperdono. La notte egli stendeva la sua pelle di antilope dove lo avevan sorpreso le tenebre, talvolta in un monastero Sunnyasi sul bordo della strada, talvolta presso un altare di fango dedicato a Kala Pir, dove gli Joga, un'altra setta indefinibile di uomini santi, lo accoglievano come si accolgono coloro che conoscono il valore delle divisioni e delle caste; talvolta ancora, alle soglie di un piccolo villaggio indiano, dove i bambini gli portavano di nascosto i cibi preparati dai loro genitori e talvolta sulla sommità di pascoli deserti, dove la fiamma del suo focherello di sterpi svegliava dal sonno i cammelli addormentati. Tutto era uguale per Purun Dass o per Purun Bhagat, come ora si chiamava. Terra, gente, nutrimento, tutto gli era indifferente. Ma il suo piede lo riportava inconsciamente verso il nord e verso l'est; dal sud a Rothak; da Rothak a Kurnool, da Kurnool alle rovine di Samanah e di là su per il letto asciutto del Gugger che si riempie solo quando piove sulle montagne, finché un giorno vide profilarsi all'orizzonte la grande catena dell'Himalaia. Allora Purun Bhagat sorrise, ricordando che sua madre era nata Bramina Rajput nella valle di Kulu, una donna della montagna sempre malata di nostalgia delle nevi: la più piccola goccia di sangue montanaro finisce col ricondurre un uomo al suo luogo di origine. - Lassù, - disse Purun Bhagat, risalendo le pendici inferiori dei Sewalik, dove i cactus si levano simili a candelabri a sette braccia - lassù mi fermerò e acquisterò saggezza -; e il freddo vento dell'Himalaia gli fischiava nelle orecchie mentr'egli prendeva la strada che porta a Simla. L'ultima volta ch'egli aveva percorso quelle strade lo aveva fatto in gran pompa, con una brillante scorta di cavalieri, per render visita al più gentile e affabile dei Vicerè; e i due avevano parlato per un'ora dei comuni amici di Londra e di quello che il popolo indiano pensa realmente dello stato delle cose. Questa volta Purun Bhagat non fece visite, ma, appoggiato al parapetto del Mall, ristette a contemplare il grandioso panorama della pianura che si stendeva ai suoi piedi per quaranta miglia, finché una guardia indigena maomettana lo avvertì che ostacolava la circolazione. Purun Bhagat si inchinò reverente alla legge, perché ne conosceva il valore e stava cercando una legge per se stesso. Proseguì e quella notte dormì in una capanna vuota a Chota Simla, un luogo simile all'estremo limite del mondo: e non era invece che l'inizio del suo viaggio. Seguì la strada che attraverso l'Himalaia conduce al Tibet, un sentiero angusto di appena dieci piedi, ricavato con le mine nella solida roccia o sospeso su ponticelli sopra abissi profondi mille piedi, che ora sprofonda entro valli calde, umide, soffocate, ora risale su nude colline erbose dove i raggi del sole fanno da specchi ustori, ora serpeggia attraverso sgocciolanti e scure foreste, dove le felci vestono i tronchi da capo a piedi ed il fagiano lancia il richiamo alla sua compagna. Incontrò pastori tibetani, con i cani ed il gregge di pecore, ognuna delle quali recava sul dorso un sacchetto di sal borace; boscaioli nomadi; lama del Tibet, avvolti in mantelli e coperte, che venivano in India in pellegrinaggio; inviati di piccoli Stati delle montagne, lanciati a briglia sciolta su cavalli zebrati e pomellati: oppure il seguito di un Rajà che si recava a fare una visita; o ancora, per tutto un lungo chiaro giorno, non vedeva altro che un orso bruno che grugniva e scavava in fondo alla valle. Nei primi giorni dopo la partenza, egli sentì ancora il risuonargli all'orecchio il frastuono del mondo che aveva abbandonato, come il rombo che echeggia ancora in una galleria dopo il passaggio del treno; ma, quando si fu lasciato indietro il passo di Mutteeanee, tutto questo cessò e Purun Bhagat si ritrovò solo con se stesso a camminare, osservare e pensare, con lo sguardo volto a terra e i pensieri fra le nuvole. Una sera, dopo una salita di due giorni, egli valicò il passo più alto che avesse incontrato fino allora, e si trovò di fronte ad una catena di cime nevose che chiudevano l'orizzonte, montagne alte da quindici a ventimila piedi, che si sarebbero dette ad un tiro di pietra ed erano invece distanti cinquanta o sessanta miglia... Il passo era tutto cinto di cupe foreste - deodara, noci, ciliegi, olivi, peri selvatici, ma soprattutto deodara, che sono i cedri dell'Himalaia; e all'ombra dei deodara sorgeva un tempietto abbandonato di Kalì, che è chiamata anche Durag a Sitala, ed è invocata contro il vaiolo. Purun Dass ripulì il pavimento di pietra, sorrise al sogghigno della statua, si costruì un piccolo focolare di fango secco dietro il tempietto, stese la sua pelle d'antilope sopra un letto di freschi aghi di pino, si pose sotto l'ascella il "bairagi" - la gruccia con l'impugnatura di ottone - e sedette per riposare. Subito sotto di lui si stendeva un ripido e nudo declivio per mille e cinquecento piedi, fino ad un piccolo villaggio di case con i muri di pietra, e i tetti di fango battuto, inerpicati su per il pendio scosceso. Tutt'intorno i campi a terrazze si stendevano simili a grembiuli a toppe sulle ginocchia della montagna, e vacche, che a distanza apparivano grosse come scarafaggi, pascolavano sul cerchio di lastre levigate delle aie. Guardando attraverso la valle, l'occhio era ingannato dalle dimensioni degli oggetti, e non riusciva sulle prime a convincersi che quello che sembrava un cespuglio sul versante opposto della montagna, era in realtà una foresta di abeti di cento piedi d'altezza. Purun Bhagat vide un'aquila calarsi a piombo nella conca immensa, ma il grande uccello non aveva ancora percorso la metà del cammino che non era più che un punto nero. Lievi lembi di nuvole si disperdevano lungo la valle, ora celandosi dietro il costone di un monte, ora alzandosi per sparire, quando avevan raggiunto l'altezza del passo. - Qui troverò la pace! - disse Purun Bhagat. Nessun montanaro dà importanza a una salita di qualche centinaio di piedi; appena gli abitanti del villaggio scorsero del fumo uscire dal tempietto abbandonato, il sacerdote del villaggio salì su per il declivio a terrazze a dare il benvenuto allo straniero. Quando incontrò lo sguardo di Purun Bhagat, sguardo abituato a dominare le folle, il sacerdote s'inchinò fino a terra, prese la ciotola del mendicante senza proferir parola e tornò al villaggio dicendo: - Abbiamo finalmente un santo. Non ho mai visto un uomo simile. E' della pianura, ma di colorito pallido, un Bramino fra i Bramini. Allora tutte le donne del villaggio chiesero: - Credete che si fermerà con noi? - e ognuna fece del suo meglio per preparare il cibo più saporito per il Bhagat. Il cibo dei montanari è molto semplice, ma con grano saraceno, grano turco, riso e pepe rosso, pesciolini pescati nel torrente, miele raccolto dagli alveari nascosti nelle rocce, albicocche secche, zafferano, zenzero selvatico e focacce d'avena, una donna abile riesce a preparare un buon pranzo; e fu una ciotola colma che il sacerdote riportò al Bhagat. Pensava di rimanere? chiese il sacerdote. Aveva bisogno di un "chela", un discepolo, che mendicasse per lui? Aveva una coperta per ripararsi dal freddo? Il cibo era buono? Purun Bhagat mangiò e ringraziò il donatore. Intendeva rimanere. Questo era sufficiente, si rallegrò il sacerdote. Lasciasse la ciotola da mendicante fuori dal tempietto, nella cavità formata da due radici intrecciate, e ogni giorno il Bhagat avrebbe ricevuto il nutrimento; giacché il villaggio si considerava onorato - disse levando timidamente lo sguardo sul volto del Bhagat - che un uomo simile si fosse degnato di rimanere con loro. Quel giorno segnò la fine del pellegrinare di Purun Bhagat. Aveva trovato il luogo adatto a lui - l'immenso silenzio e l'immenso spazio. Dopo, il tempo si fermò ed egli, sedendo sulla soglia del tempietto, non avrebbe saputo dire se era ancor vivo o già morto, uomo libero di muover le sue membra o parte delle montagne, delle nuvole, della pioggia capricciosa o della luce del sole. Egli ripeteva sotto voce un nome centinaia e centinaia di volte, finché, ad ogni ripetizione, gli pareva di uscire sempre più dal suo corpo, avvicinandosi sempre più alle soglie di una terribile scoperta; ma, proprio quando la porta stava per aprirsi, il peso del corpo lo faceva ricadere indietro, ed egli si sentiva di nuovo dolorosamente costretto nella carne e nelle ossa di Purun Bhagat. Ogni mattina la ciotola riempita era posata senza rumore nel cavo delle radici fuori del tempio. Qualche volta la portava il sacerdote; qualche volta un mercante Ladakhi, abitante nel villaggio che, ansioso di farsi dei meriti, si inerpicava su per il sentiero; ma il più delle volte la recava la stessa donna che aveva cucinato il cibo la sera prima e mormorava con il fiato mozzo: - Parla per me agli Dei, Bhagat. Prega per la Tale, moglie del Taldeitali. Di quando in quando l'onore toccava a qualche bambino più audace, e Purun Bhagat lo sentiva deporre la ciotola e correre con tutta la velocità che gli consentivano le sue gambette; ma il Bhagat non scendeva mai al villaggio, che era spiegato ai suoi piedi come una carta geografica. Poteva vedere le riunioni serali, tenute entro il cerchio delle aie, unici spazi pianeggianti; poteva scorgere il meraviglioso indefinibile verde del riso novello, l'indaco del granoturco, i piccoli campi quadrati di grano saraceno e, alla sua stagione, il rosso fiore dell'amaranto, il cui piccolo seme, che non è né cereale né legume, costituisce un cibo ritualmente consentito agli Indiani durante i digiuni. Quando l'anno volgeva alla fine, i tetti delle casupole divenivano simili a riquadri di oro purissimo per le pannocchie di granoturco che vi erano collocate a seccare. La raccolta del miele e del frumento, la semina e la monda del riso si alternavano sotto i suoi occhi, simili a ricami intessuti sui vari campicelli; ed egli meditava su tutto questo e si domandava a che cosa serviva in fondo quel continuo lavoro. Anche nell'India popolosa un uomo non può starsene un giorno immobile senza che le creature selvatiche vengano a correre sopra il suo corpo quasi fosse una roccia; e in quel luogo selvaggio gli animali che conoscevano il tempietto di Kalì tornarono ben presto ad esaminare l'intruso. I "langurs", le grandi scimmie dalle fedine grigie dell'Himalaia, furono naturalmente le prime, divorate, come sempre sono, dalla curiosità; quand'ebbero rovesciata la ciotola, facendola rotolare sul pavimento, quand'ebbero provato i loro denti sull'ottone della gruccia, e fatte le boccacce alla pelle di antilope, conclusero che l'essere umano che se ne stava così immobile era innocuo. La sera si calavano giù dai pini, elemosinavano con le mani un po' di cibo e poi ripartivano con movenze aggraziate. Amavano anche il calore del fuoco e vi si stringevano intorno, fino a quando Purun Bhagat doveva allontanarle per aggiungere nuova legna. Il mattino gli accadeva molto spesso di trovare una scimmia pelosa sotto la sua stessa coperta. Durante tutta la giornata uno o l'altro membro della tribù si sedeva al suo fianco con lo sguardo fisso alle nevi, gemendo, pieno di indicibile serietà e malinconia. Dopo le scimmie venne il "barasingh", il grosso cervo indiano che è simile al nostro cervo rosso, ma è più forte. Voleva grattarsi via il velluto dalle corna contro le fredde pietre delle statue di Kalì e si arrestò inquieto quando vide l'uomo accanto al tempio. Ma Purun Bhagat non si mosse, così che a poco a poco il cervo reale gli si fece dappresso sfiorandogli la spalla col muso. Purun Bhagat passò una mano fresca sulle corna ardenti e il tocco leggero ammansì l'animale che piegò il capo, così che Purun Bhagat gli soffregò le corna delicatamente togliendone la peluria. In seguito il "barasingh" portò con sé la femmina e il cerbiatto, miti creature che annusavano la coperta del santo, o se ne veniva solo nella notte, con gli occhi verdi che splendevano al bagliore del fuoco, per prendersi la sua parte di noci fresche. Per ultimo giunse il cervo muschiato, il più timido e forse il più piccolo dei cervi, con le sue grandi orecchie da coniglio dritte. Perfino il silenzioso "mushick-nabha" volle rendersi conto di ciò che significasse la luce del tempietto, e posò il suo muso di topo in grembo a Purun Bhagat, andando e venendo con le ombre create dal fuoco. Purun Bhagat li chiamava tutti «fratelli» ed il suo sommesso richiamo di "Bhai! Bhai!" bastava a farli uscire dalla foresta in pieno giorno, quando erano a portata di voce. L'orso nero dell'Himalaia, Sona, irritabile e sospettoso, che porta un 38 1 39 segno bianco a forma di V sotto il mento, passò di lì più di una volta: e, siccome Bhagat non mostrava alcun timore, Sona non si infuriò, anzi, ma lo esaminò e gli si fece vicino e pretese la sua parte di carezze ed un po' di pane e di bacche selvatiche. Spesso nella pace dell'alba, quando Bhagat saliva fino al sommo del passo per veder nascere il giorno sui picchi nevosi, trovava Sona che gli grufolava alle calcagna, arrischiando una zampa curiosa sotto i tronchi abbattuti, e ritraendola poi con un "whoof "di impazienza; oppure i suoi passi mattutini svegliavano Sona che dormiva raggomitolato sul terreno; e il bestione, balzando in piedi, si preparava alla lotta, finché non riconosceva nella voce di Bhagat quella del suo migliore amico. Quasi tutti gli eremiti ed i santi uomini che vivono lontani dalle grandi città godono fama di saper compiere miracoli sugli esseri selvatici, ma tutto il miracolo consiste nel rimanere immobili, nell'evitare moti improvvisi e, almeno per un certo tempo, nel non cercare lo sguardo del visitatore. Gli abitanti del villaggio vedevano il profilo del "barasingh" passare come un'ombra nella cupa foresta dietro il tempietto; vedevano il "minaul", il fagiano dell'Himalaia, sfoggiare i suoi colori più belli davanti alla statua di Kalì e i "langurs" nell'interno giocare accoccolati con i gusci di noce. Qualche ragazzo aveva anche udito Sona grufolare fra sé, secondo l'uso degli orsi, dietro i massi caduti, e questo aveva avvalorato la convinzione che il Bhagat operasse miracoli. Eppure nulla era più lontano dalla sua mente dei miracoli. Egli credeva che tutte le cose fossero un immenso miracolo, e, quando un uomo si rende conto di questo, ne sa quanto basta. Sapeva con certezza che al mondo non vi è nulla di grande e nulla di piccolo; e giorno e notte si sforzava di penetrare nel cuore stesso delle cose, per risalire fino al mistero donde era uscita la sua anima. Mentre così meditava, i capelli incolti cominciarono a ricadergli sulle spalle; nella pietra accanto alla pelle di antilope si scavò un piccolo foro là dove si appoggiava la gruccia; l'incavo tra le radici ove era posata la ciotola per il cibo si consumò sino a diventar largo quanto la stessa scura ciotola. Ed infine ogni bestia conobbe il posto preciso che le era destinato accanto al fuoco. I prati mutavano colore con le stagioni, le aie si riempivano e si vuotavano e tornavano a riempirsi e, al giungere dell'inverno, i "langurs" riprendevano a giocare fra i rami spruzzati di neve, finché in primavera le scimmie madri riportavano su dalle calde vallate i loro piccoli dagli occhi tristi. Ben pochi cambiamenti si verificavano nel villaggio. Il sacerdote era invecchiato, e molti dei bambini che erano venuti un tempo a portare la ciotola del cibo mandavano ora i loro figlioli; e quando si domandava alla gente del luogo da quanto tempo il sant'uomo viveva nel tempietto di Kalì, sulla sommità del valico, la risposta era: «Da sempre!». Un'estate caddero delle piogge torrenziali come non si erano viste da molti anni tra quei monti. Per tre lunghi mesi la valle, immersa nelle nuvole e avvolta da una fitta nebbia, fu battuta da una pioggia ininterrotta, che ogni tanto scoppiava in un uragano di tuoni. Il tempio di Kalì emergeva quasi sempre dalle nubi e per tutto un mese il Bhagat non riuscì neppure a scorgere il villaggio, sepolto sotto uno strato di nuvole bianche che ondeggiavano e si accavallavano, ma non si staccavano mai dai fianchi della montagna solcati da ruscelli. Durante tutto quel tempo egli udì solo il rumore di miriadi di gocce che stillavano dagli alberi e scorrevano sul terreno, filtrando attraverso i rami dei pini, gocciolando dalle foglie delle felci, scavando canali fangosi lungo il declivio del monte. Finalmente riapparve il sole e riempì l'aria del profumo dei deodar e dei rododendri e di quell'alito remoto e puro che i montanari chiamano «l'odore delle nevi». Il sole caldo durò tutta una settimana, poi tornarono ad addensarsi le nubi per l'ultimo uragano e l'acqua scese a torrenti, portando via la crosta del terreno e trasformandola in fango. Quella notte Purun Bhagat buttò molta legna sul fuoco, perché era certo che i suoi fratelli avrebbero avuto bisogno di riscaldarsi; ma nessuna bestia comparve nel tempietto, quantunque egli chiamasse e richiamasse, finché cadde vinto dal sonno, chiedendosi che cosa potesse essere accaduto nel bosco. Nella notte più fonda, mentre la pioggia scrosciava come il rullo di mille tamburi, egli fu destato da qualcuno che tirava la sua coperta; allungò il braccio e sentì la piccola mano di un "langur". - Si sta meglio qui che fra gli alberi - disse insonnolito, sollevando un lembo della coperta. - Vieni e riscaldati. La scimmia afferrò la mano e la tirò forte. - Hai fame? - chiese Purun Bhagat. - Aspetta un momento che ti preparo qualcosa. Mentre si inginocchiava per ravvivare il fuoco, il "langur" corse alla porta del tempio, emise un gemito e tornò indietro correndo, aggrappandosi alle ginocchia dell'uomo. - Che cosa hai? che cosa ti affligge, Fratello? - chiese Purun Bhagat, perché gli occhi del "langur" erano pieni di cose che esso non sapeva esprimere. - A meno che uno dei tuoi compagni non sia caduto in una trappola (ma qui trappole non ce ne sono) io non esco con questo tempo. Guarda, Fratello, anche il "barasingh" viene a cercare rifugio. Le corna del cervo che entrava d'impeto nel tempio cozzarono contro la sogghignante statua di Kalì. Poi le abbassò in direzione di Purun Bhagat, scalpitando con inquietudine e sbuffando dalle narici semichiuse. - Ahi! Ahi! Ahi! - esclamò Bhagat, facendo schioccare le dita. - E' questa la ricompensa per l'ospitalità che ti offro? Ma il cervo lo spinse verso la porta così che Purun Bhagat udì il rumore di qualcosa che si apriva con un soffio, vide due lastre del pavimento scostarsi una dall'altra, mentre la terra melmosa gorgogliava al di sotto con un suono come di labbra che schioccassero. - Ora capisco - disse Purun Bhagat. - Non hanno torto i miei fratelli se non sono venuti questa notte a sedersi attorno al fuoco. La montagna sta franando. Eppure, perché dovrei andarmene? - i suoi occhi caddero sulla ciotola vuota e l'espressione del suo volto mutò: - Mi hanno nutrito ogni giorno da quando... da quando sono venuto; e, se non mi affretto, domani non ci sarà più una sola bocca in tutta la valle. Debbo assolutamente scendere ad avvertirli. Fatti indietro, Fratello, lasciami avvicinare al fuoco. Il "barasingh" indietreggiò a malincuore, mentre Purun Bhagat cacciava un ramo di pino nel vivo della fiamma, rigirandolo fino a quando non fu completamente acceso. - Ah! siete venuti ad avvertirmi - disse alzandosi. - Ma dobbiamo far qualcosa di meglio. Fuori, adesso, e porgimi il tuo collo, Fratello, perché io non ho che due piedi. Afferrò con la mano destra il garrese peloso del "barasingh", con la sinistra tenne alta la torcia e uscì dal tempio nella lugubre notte. Non spirava un alito di vento, ma la pioggia minacciava ogni momento di spegnere la fiamma, mentre il grande cervo si slanciava lungo il pendio, scivolando sulle zampe. Appena furono usciti dalla foresta, molti dei fratelli del Bhagat si unirono a loro. Il Bhagat sentiva, pur non vedendoli, i "langurs" stringerglisi intorno e dietro gli "uhh! uhh!" di Sona. La pioggia aveva attorcigliato come funi i suoi lunghi capelli bianchi, i piedi nudi guazzavano nell'acqua e la veste gialla si appiccicava al fragile, vecchio corpo; ma egli continuava a scendere risoluto appoggiandosi al "barasingh". Non era più un sant'uomo, ma Sir Purun Dass, K.C.I.E., Primo Ministro di uno Stato importante, un uomo abituato al comando, che andava a salvare delle vite. Lungo il sentiero ripido e fangoso, il Bhagat ed i suoi fratelli scivolarono tutti insieme, giù, giù, finché gli zoccoli del cervo andarono a urtare contro i recinto di un'aia e l'animale sbuffò, sentendo l'odore dell'Uomo. Erano giunti all'estremità dell'unica strada tortuosa del villaggio, e il Bhagat batté con la gruccia alle finestre sbarrate della casa del fabbro, mentre la torcia al riparo della grondaia, fiammeggiava più alta. - Su! Fuori! - gridò Purun Bhagat; e non riconobbe la sua voce perché erano anni che non aveva più parlato a voce alta con un uomo. - La montagna frana! La montagna sta franando! Alzatevi e uscite, voi tutti lì dentro! - E' il nostro Bhagat! - disse la moglie del fabbro. - E' in mezzo alle sue bestie. Riunisci i bambini e da' l'allarme. E l'allarme si propagò di casa in casa, mentre le bestie, ammucchiate nello stretto passaggio, si agitavano accalcandosi intorno al Bhagat, e Sona sbuffava impaziente. La gente si precipitò nella strada: erano in tutto una settantina e alla luce delle torce videro il loro Bhagat trattenere il "barasingh" atterrito mentre le scimmie lo tiravano disperatamente per il lembo della veste, e Sona accovacciato sulle zampe grugniva. - Giù per la vallata e su per l'altro versante della montagna! - gridò Purun Bhagat. - Che nessuno resti indietro! Noi vi seguiamo! Allora tutti si misero a correre, come solo sanno correre i montanari, poiché sapevano che, quando si forma la frana, occorre risalire il più in alto possibile dall'altro lato della valle. Fuggirono sguazzando attraverso il fiumicello giù in basso, e si arrampicarono ansanti su per le terrazze del versante opposto, seguiti dal Bhagat e dai suoi compagni. Salirono su su per il pendio, chiamandosi l'un l'altro per nome, facendo l'appello di tutto il villaggio, mentre alle loro calcagna arrancava il grande "barasingh", sostenendo il peso del Bhagat, che si sentiva venir meno le forze. Alla fine il cervo si arrestò nel folto di una pineta, cinquecento piedi sopra il fondovalle. Il suo istinto, che lo aveva avvertito della frana imminente, gli diceva che lì poteva ritenersi al sicuro. Purun Bhagat si accasciò vicino a lui, perché la gelida pioggia e la salita faticosa lo avevano sfinito; ma prima gridò ai portatori di torce che procedevano innanzi: - Fermatevi e contatevi! Poi sottovoce al cervo, quando vide le luci riunirsi in gruppo: - Stammi vicino, Fratello - mormorò. - Resta qui finché io me ne andrò! Nell'aria passò come un soffio, che andò crescendo in un brontolio, per diventare poi un rombo assordante e insostenibile; e il fianco del monte su cui si era riunita la gente del villaggio sprofondò nell'oscurità, e tremò da cima a fondo. Allora un suono prolungato, profondo e nitido, come il "do" dell'organo, coperse ogni altro rumore per quasi cinque minuti, facendo vibrare insieme i pini fino alle radici. Poi svanì, e il rumore della pioggia che cadeva su miglia di prato e di terreno duro si trasformò nel tambureggiare attutito dell'acqua sulla terra molle. Questo diceva da sé quanto era accaduto. Nessuno del villaggio, né tanto meno il sacerdote, ebbe il coraggio di parlare al Bhagat che aveva salvato loro la vita. Si coricarono sotto i pini ad aspettare il giorno. E quando questo arrivò, spingendo lo sguardo giù per la valle, videro che ciò ch'era stato prima foreste, campi a terrazze, pascoli erbosi solcati da sentieri, non era più che un selvaggio, rossastro, immane squarcio a forma di ventaglio, con pochi alberi divelti in bilico lungo la scarpata. La frana risaliva in alto lungo il versante dove avevano cercato rifugio, sbarrando come una diga il corso del torrente che si andava allargando in un lago color mattone. Del villaggio, del sentiero che conduceva al tempietto, del tempietto stesso, di tutta la foresta dietro di esso, non v'era più traccia. Per un miglio in larghezza e duemila piedi in profondità, tutto il versante della montagna si era staccato in un solo blocco, tagliato netto da cima a fondo. E i montanari, uno per uno, scivolarono attraverso il bosco per andare a pregare davanti al loro Bhagat. Videro accanto a lui il "barasingh", che fuggì appena essi si avvicinarono, e udirono i "langurs" che si lamentavano fra i rami e Sona che grugniva sulla montagna; ma il loro Bhagat era morto, seduto con le gambe incrociate, la schiena appoggiata ad un albero, la gruccia sotto l'ascella e il viso volto a nord est. - Vedete, - disse il sacerdote - un miracolo dopo l'altro, poiché questa è la posizione in cui deve essere sepolto ogni Sunnyasi! Perciò nel punto in cui egli ora si trova, noi edificheremo un tempio in onore del nostro santo. Il tempio fu costruito prima che passasse un anno, una piccola cappelletta fatta di pietre e di argilla; e il monte fu chiamato il monte Bhagat, e anche oggi lo venerano con fiori, lumi ed offerte. Ma ignorano che il santo da essi venerato è il defunto Sir Purun Dass, K.C.I.E., D.C.L. Ph. D., eccetera, già Primo Ministro del progressista ed illuminato Stato di Mohiniwala, e membro onorario o corrispondente delle più dotte società scientifiche che siano mai esistite in questo mondo e nell'altro. Il canto di Kabir (1). Oh, lieve era il mondo che soppesava nelle sue mani! Oh, grave il conto dei suoi feudi e delle sue terre! Egli ha abbandonato il "guddee" (2), indossato il lenzuolo ed è partito come un "bairagi" (3) votato! Ora la bianca strada verso Delhi è la stuoia per i suoi piedi, l'albero "sal" (4) e il "kikar" (5) devono proteggerlo dal caldo; la sua casa è il campo e il deserto e la folla - sta cercando la Strada come un "bairagi" votato! Egli ha guardato l'Uomo, e i suoi occhi sono sereni (una volta c'era l'Uno; ora c'è l'Uno, e soltanto l'Uno, ha detto Kabir); la Rossa Bruma dell'Azione si è dissolta in una nuvola - egli ha preso il Sentiero per il "bairagi" votato! Per imparare a distinguere la zolla sua sorella, l'animale suo fratello e suo fratello il Dio ha abbandonato il consiglio e indossato il lenzuolo («Puoi sentire?» ha detto Kabir), è un "bairagi" votato! NOTE. Nota 1. "Kabir": santone religioso che andava predicando di paese in paese. Nota 2. "Guddee": trono. Nota 3. "Bairagi": mendicante. Nota 4. "Sal": un tipo di albero il cui legno somiglia a quello del «teak». Nota 5. "Kikar": albero spinoso della famiglia delle acacie. 3. L'INVASIONE DELLA JUNGLA. Nascondili, coprili, circondali con un muro o fiore, rampicante e erbaccia. Lasciaci dimenticare la vista e il suono, l'odore e il tocco della loro razza! Nera, grassa cenere presso la pietra dell'altare; ecco la pioggia dai bianchi piedi; la daina partorisce nei campi non seminati e nessuno la spaventerà di nuovo; le mura cieche si sgretolano, ignorate e abbattute, e nessuno le abiterà di nuovo! Vi ricorderete che, dopo che Mowgli ebbe inchiodato alla Rupe del Consiglio la pelle di Shere Khan, disse a quanti restavano del Branco di Seeonee che da quel momento in avanti avrebbe cacciato da solo nella Jungla; ed i quattro figli di mamma e papà Lupo gli chiesero di cacciare con lui. Ma non è facile mutar vita da un momento all'altro, specialmente nella Jungla. La prima cosa che Mowgli fece, dopo che il Branco si fu disperso in disordine, fu ritirarsi nella sua grotta-casa e dormirvi tutto un giorno e una notte. Poi raccontò a papà Lupo e mamma Lupa quanto essi potevano capire delle sue avventure fra gli uomini; e quando fece scintillare al sole del mattino la lama acuminata del suo coltello - lo stesso con cui aveva scuoiato Shere Khan - quelli riconobbero che aveva imparato qualcosa. Poi Akela e Fratello Bigio dovettero spiegare la parte che avevano avuta nella carica dei bufali giù nel burrone, e Baloo salì in cima alla collina, per sentire ogni cosa mentre Bagheera si grattava voluttuosamente, nell'ascoltare in quale modo Mowgli aveva condotto la sua battaglia. Il sole si era levato da un pezzo, ma nessuno si sognava di andare a dormire e di tanto in tanto, durante la narrazione, mamma Lupa alzava il muso e fiutava compiaciuta una buffata di vento che le portava l'odore della pelle della tigre dalla Rupe del Consiglio. - Se non ci fossero stati Akela e Fratello Bigio - ammise Mowgli alla fine - non avrei potuto far nulla. O mamma, mamma! Avessi visto il nero branco dei bufali rovinare giù nel burrone o precipitarsi contro le barriere, quando il Branco degli Uomini mi lanciava contro le pietre! - Sono contenta di non aver visto questo finale - disse bruscamente mamma Lupa. - Non sono abituata a vedere i miei cuccioli cacciati su e giù come sciacalli. L'avrei fatta pagar cara al Branco degli Uomini; ma avrei risparmiato la donna che ti aveva dato il latte. Sì, avrei risparmiato lei sola. - Calma, calma, Raksha! - disse pigramente papà Lupo. - Il nostro ranocchio è tornato fra noi... così sapiente che suo padre stesso deve leccargli i piedi; e che importa una ferita in più o in meno sulla testa? Lascia stare gli Uomini. Baloo e Bagheera fecero eco: - Lascia stare gli Uomini. Mowgli, con la testa appoggiata al fianco di mamma Lupa, sorrideva soddisfatto e diceva che, per conto suo, non avrebbe mai più desiderato vedere, sentire o fiutare ancora l'Uomo. - Ma se fossero gli uomini, invece, - disse Akela rizzando un orecchio - a non lasciarti tranquillo, Fratellino? - Siamo in cinque - rispose Fratello Bigio, volgendo lo sguardo attorno e serrando le mascelle sull'ultima parola. - Potremmo partecipare anche noi a quella caccia - osservò Bagheera, agitando la coda con un fruscio e guardando Baloo. - Ma perché ti preoccupi degli uomini, ora, Akela? - Per questa ragione - rispose il Lupo Solitario: - quando la pelle gialla di quel ladro fu appesa alla rupe, ritornai sulle nostre tracce verso il villaggio, camminando sulle mie orme, buttandomi da una parte o dall'altra, allungandomi a terra, per confondere la traccia, nel caso che volessero seguirci. Ma quando ebbi disperso la traccia, al punto che io stesso non riuscivo quasi più a ritrovarla, Mang il Pipistrello venne a svolazzare fra i rami e si appese proprio sopra il mio capo. Egli mi disse: «Il villaggio del Branco degli Uomini, quello che ha scacciato il Cucciolo d'Uomo, ronza come un nido di vespe». - Era una grossa pietra quella che avevo tirato - ridacchiò Mowgli, che spesso si era divertito a lanciare le papaie mature contro i nidi di vespa e a tuffarsi nella pozza d'acqua più vicina, prima che le vespe potessero raggiungerlo. - Chiesi a Mang che cosa avesse visto. Disse che il Fiore Rosso era sbocciato presso le porte del villaggio e che vi stavano attorno uomini armati di fucili. Ora io so, perché ho i miei buoni motivi, - ed Akela si guardò le vecchie cicatrici secche sul fianco e sulla spalla - che gli uomini non si armano di fucile per divertimento. In questo momento, Fratellino, un uomo con un fucile sta seguendo la nostra traccia, e forse l'ha già trovata. - Ma perché lo farebbe? Gli uomini mi hanno scacciato. Che cosa vogliono ancora? - disse Mowgli con rabbia. - Tu sei un uomo, Fratellino - replicò Akela. - Non sta a noi, Liberi Cacciatori, spiegarti che cosa fanno i tuoi fratelli e perché. Ebbe appena il tempo di ritrarre la zampa che il coltello acuminato si conficcò profondamente nel terreno sotto di lui. Mowgli colpiva così rapidamente che un occhio umano non avrebbe potuto seguire il colpo, ma Akela era un lupo; e perfino un cane, pur così decaduto dal lupo selvatico, suo antenato, può essere svegliato mentre dorme profondamente dalla ruota di un carro che gli sfiori il fianco e riesce a balzar di lato indenne prima che gli passi sopra. - Un'altra volta - disse tranquillo Mowgli, rifoderando il coltello - parla del Branco degli Uomini e di Mowgli in due momenti diversi, non nello stesso. - Pff! Che dente acuto! - esclamò Akela annusando il taglio prodotto dalla lama nella terra. - Ma vivendo col Branco degli Uomini, ti sei rovinato l'acutezza della vista, Fratellino; avrei avuto il tempo di uccidere un capriolo, mentre tu tiravi. Bagheera balzò in piedi, allungò il muso più che poté, fiutò il vento e si irrigidì in ogni curva del suo corpo. Fratello Bigio seguì tosto il suo esempio, tenendosi un po' a sinistra per fiutare il vento che spirava da destra, mentre Akela fece un balzo di cinquanta metri contro vento e, mezzo accovacciato, rimase egli pure immobile. Mowgli li osservava con invidia. Aveva un odorato come pochissimi esseri umani possiedono, ma non aveva mai raggiunto la finezza di olfatto di un naso della Jungla; i tre mesi passati al villaggio pieno di fumo, poi, gli avevano fatto perdere molto terreno. Tuttavia, inumidì un dito, se lo fregò sul naso, e si rizzò in piedi per afferrare l'odore più alto che, pur essendo il più debole, è sempre il più sicuro. - L'uomo! - brontolò Akela, accosciandosi. - Buldeo! - disse Mowgli, sedendosi. - Segue la nostra traccia e si può scorgere il suo fucile brillare al sole. Guardate! Non si vide altro che una scintilla di sole per la frazione di un secondo sulle finiture d'ottone del vecchio archibugio, ma nella Jungla, quando le nuvole non corrono su nel cielo, non vi è nulla che risplenda con simile barbaglio. Allora una lastrina di mica, o una pozzanghera o perfino una foglia molto levigata e lucida risplendono come un eliografo. Ma quel giorno il cielo era tranquillo e senza nubi. - Sapevo che gli uomini ci avrebbero seguito - disse trionfante Akela. - Non per nulla sono stato il capo del Branco. I quattro lupacchiotti rimasero zitti, ma si buttarono giù per il pendio strisciando sul ventre e scomparvero fra i rovi e i cespugli, come una talpa scompare in un prato. - Dove andate, senza attendere la parola d'ordine? - li richiamò Mowgli. - Sst! Faremo rotolare qui il suo cranio prima di mezzogiorno! - rispose Fratello Bigio. - Indietro! Indietro ed aspettate! L'Uomo non mangia l'Uomo - gridò Mowgli. - Chi sosteneva un momento fa d'essere un lupo? Chi mi ha lanciato il suo coltello perché io pensavo che fosse un Uomo? - osservò Akela mentre i quattro lupi se ne ritornavano di malumore e si accovacciavano. - Devo dare la spiegazione di tutto ciò che voglio fare? - chiese Mowgli incollerito. - Ecco l'Uomo! E' l'Uomo che parla! - mormorò Bagheera sotto i baffi. - Gli uomini parlavano proprio così attorno alle gabbie del Re ad Oodeypore. Noi della Jungla sappiamo che l'Uomo è il più sapiente di tutti, ma se dovessimo credere alle nostre orecchie, concluderemmo che è il più stupido di tutti gli esseri. - Poi aggiunse, alzando la voce. - Il Cucciolo d'Uomo ha ragione in questo. Gli uomini vanno a caccia in branchi. Ucciderne uno, senza sapere che cosa faranno gli altri, è una caccia sbagliata. Andiamo a vedere che intenzione ha quest'uomo nei nostri riguardi. - Noi non verremo - brontolò Fratello Bigio. - Caccia per conto tuo, Fratellino. Noi sappiamo quel che vogliamo: e a quest'ora avremmo già potuto portarti la testa. Lo sguardo di Mowgli errava dall'uno all'altro dei suoi amici, il suo petto era ansante e i suoi occhi pieni di lacrime. Fece un passo verso i lupi e, piegando a terra un ginocchio, esclamò: - Ed io non so quel che voglio? Guardatemi! Essi lo guardarono sentendosi a disagio e, mentre i loro occhi cercavano di sfuggire, egli li fissò ripetutamente, finché il pelo si rizzò sui loro corpi ed essi si misero a tremare in ogni membro, e Mowgli continuava a guardarli. - E adesso, - domandò - chi è il Capo, di noi cinque? - Tu sei il Capo, Fratellino - disse Fratello Bigio, leccandogli un piede. - Allora, seguitemi! - disse Mowgli ed i quattro gli si misero alle calcagna con la coda fra le gambe. - Questo avviene perché tu hai vissuto col Branco degli Uomini - osservò Bagheera, muovendosi leggera dietro a loro. - Ora, Baloo, nella Jungla vi è qualcosa di più che la Legge della Jungla? Il vecchio orso non disse nulla, ma rimase immerso nei suoi pensieri. Mowgli scivolò silenziosamente attraverso la Jungla, per incrociare ad angolo retto il sentiero di Buldeo, finché, spartendo i cespugli, vide il vecchio col fucile in spalla seguire frettoloso la traccia di due notti prima. Ricorderete che Mowgli aveva lasciato il villaggio, con sulle spalle il carico della pelle di Shere Khan, mentre Akela e Fratello Bigio gli trottavano dietro, cosicché la triplice orma era rimasta nettamente visibile. Ad un tratto Buldeo arrivò là dove Akela, come sapete, era ritornato per confonderla. Allora egli sedette, tossì, sbuffò e si mise a perlustrare tutt'intorno a piccola distanza per riprenderla e durante tutto questo maneggio avrebbe potuto gettare una pietra contro quelli che lo stavano spiando. Nessuno può essere silenzioso come un lupo, se non vuol farsi sentire; e Mowgli, benché i lupi giudicassero i suoi movimenti goffi e pesanti, poteva spostarsi come un'ombra. Accerchiarono il vecchio, come un branco di delfini circonda una nave lanciata a tutta velocità, e mentre eseguivano quest'operazione parlavano senza darsi pensiero, perché il loro linguaggio sta un gradino più in basso di quanto orecchi umani non abituati riescano a percepire. (Il gradino opposto è rappresentato dall'acuto squittio di Mang, il Pipistrello, che molta gente non riesce affatto a sentire; da quella nota parte tutta la scala del linguaggio degli uccelli, dei pipistrelli e degli insetti). - Questa caccia è meglio di un'uccisione - diceva Fratello Bigio ogni volta che Buldeo si arrestava e scrutava e sbuffava. - Sembra un cinghiale sperduto nella Jungla, vicino al fiume. Che cosa sta dicendo? Buldeo brontolava infuriato e Mowgli tradusse: - Dice che interi branchi di lupi devono aver ballato attorno a me. Dice che in vita sua non ha mai seguito una traccia simile. Dice che è stanco. - Avrà tempo di riposarsi prima che l'abbia di nuovo trovata - commentò freddamente Bagheera, scivolando intorno al tronco di un albero, in quel gioco di mosca-cieca che stavano giocando. - Che cosa fa ora con quella cosa sottile? - Mangia o soffia fumo dalla bocca. Gli uomini giocano sempre con la bocca - disse Mowgli; e i cacciatori silenziosi videro il vecchio riempire e accendere la pipa e trarne boccate di fumo e notarono accuratamente l'odor del tabacco, per essere sicuri, all'occorrenza, di riconoscere Buldeo nella notte più scura. In quel mentre un gruppo di carbonai scese per il sentiero e si fermò naturalmente a chiacchierare con Buldeo, la cui fama di cacciatore era nota entro un raggio di almeno venti miglia. Tutti sedettero a fumare, mentre Bagheera e gli altri facevano la guardia e ascoltavano attenti il racconto che Buldeo prese a fare della storia di Mowgli, il ragazzo- demonio, ripetendola da un capo all'altro e arricchendola di aggiunte ed invenzioni. Come proprio lui, Buldeo, avesse ucciso Shere Khan; come Mowgli si fosse trasformato in lupo ed avesse combattuto con lui per tutto un pomeriggio, e come poi si fosse di nuovo trasformato in ragazzo e avesse stregato il fucile di Buldeo, cosicché la palla, deviando quando egli aveva mirato su Mowgli, aveva ucciso uno dei bufali di Buldeo stesso; come gli abitanti del villaggio, sapendo che egli era il più coraggioso dei cacciatori di Seeonee, lo aveva mandato ad uccidere il ragazzo-demonio. Nel frattempo al villaggio si erano impadroniti di Messua e di suo marito, che dovevano certo essere il padre e la madre del ragazzo-demonio, li avevano chiusi a chiave nella loro capanna, e fra poco li avrebbero torturati per costringerli a confessare che erano uno stregone e una strega; e infine li avrebbero arsi vivi. - Quando? - chiesero i carbonai, perché sarebbe loro piaciuto moltissimo assistere alla cerimonia. Buldeo disse che non si sarebbe fatto nulla prima del suo ritorno, perché il villaggio voleva innanzi tutto che egli uccidesse il ragazzo della Jungla. Dopo di che avrebbero pensato a Messua e a suo marito, e avrebbero spartito fra gli abitanti del villaggio le loro terre e i loro bufali. Il marito di Messua possedeva certi bufali veramente belli. Buldeo pensava che era un'ottima cosa sterminare gli stregoni; e gente che manteneva figli di Lupi scappati dalla Jungla apparteneva evidentemente alla peggior genia di stregoni. Ma, obiettavano i carbonai, che cosa sarebbe accaduto se gli Inglesi ne fossero venuti a conoscenza? Avevano sentito dire che gli Inglesi erano tanto pazzi da non permettere agli onesti contadini di uccidere in pace gli stregoni. Il capo del villaggio, diceva Buldeo, avrebbe fatto il suo rapporto dicendo che Messua e suo marito erano morti in seguito a una morsicatura di serpente. Tutta quella faccenda era sistemata, ed ora non rimaneva che da uccidere il figlio di lupo. Non avevano visto per caso nulla che assomigliasse a una creatura del genere? I carbonai si guardarono attorno impressionati, ringraziando la loro buona stella di non averla vista; ma non avevano dubbi che un uomo coraggioso come Buldeo sarebbe stato in grado di scovarla quando avesse voluto. Il sole stava per tramontare; pensavano che si sarebbero spinti fino al villaggio di Buldeo per vedere quel dannato stregone. Buldeo disse che, per quanto fosse suo dovere uccidere il ragazzo-demonio, non poteva neppur pensare di lasciar addentrarsi nella Jungla un gruppo di uomini inermi senza scortarli, dato che il lupo-demonio avrebbe potuto saltar fuori da un momento all'altro. Li avrebbe perciò accompagnati e, se quel figlio di una strega fosse apparso,... ebbene, egli avrebbe mostrato loro come il miglior cacciatore di Seeonee se la cavava in simili circostanze. Il Bramino, disse, gli aveva dato un amuleto che lo immunizzava contro quella creatura. - Che cosa dice? Che cosa dice? Che cosa dice? - ripetevano i lupi ad ogni istante; e Mowgli continuò a tradurre, finché giunse alla parte del racconto che parlava di streghe. Questa restava al di là della sua comprensione, e così egli spiegò che l'uomo e la donna, che erano stati così buoni con lui, erano stati messi in trappola. - L'Uomo mette in trappola un altro Uomo? - chiese Bagheera. - Così pare, ma non capisco tutto quel che dice. Sono tutti pazzi. Che cosa hanno a che fare con me Messua e suo marito, perché li debbano mettere in trappola? E che cos'è tutto questo discorso sul Fiore Rosso? Voglio vederci chiaro. Qualunque cosa vogliano fare a Messua, non la faranno prima del ritorno di Buldeo. E allora... - e Mowgli rifletté profondamente, tormentando con le dita il manico del suo coltello, mentre Buldeo ed i carbonai si mettevano coraggiosamente in cammino in fila indiana. - Torno di corsa al Branco degli Uomini - disse finalmente Mowgli. - E quelli? - chiese Fratello Bigio, volgendo uno sguardo affamato alle brune schiene dei carbonai. - Accompagnali a casa cantando - rispose Mowgli con un risolino; - non voglio che arrivino alle porte del villaggio prima del buio. Ti senti di trattenerli? Fratello Bigio scoprì i denti bianchi con aria di disprezzo: - Posso farli girare come capre legate al picchetto... se è vero che conosco l'Uomo. - Questo non mi occorre. Tienili un poco allegri col tuo canto, perché non si sentano soli lungo il cammino; ma non è necessario, Fratello Bigio, che la canzone sia proprio delle più dolci. Va' con loro, Bagheera, e unisciti al loro canto. Quando sarà calata la notte, vienimi incontro al villaggio... Fratello Bigio conosce il posto. - Non è facile lavorare per un Uomo Cucciolo. Quando potrò dormire? - chiese Bagheera sbadigliando, sebbene i suoi occhi dimostrassero che era molto divertita. - Proprio a me tocca cantare per gli uomini nudi! Ma proviamo! Abbassò il muso, perché il suono si propagasse più lontano, e lanciò un lunghissimo: - Buona caccia! - un richiamo notturno in pieno pomeriggio che, come inizio, fu abbastanza terribile. Mowgli lo udì rimbombare, poi elevarsi e cadere ed infine svanire in una specie di gemito sinistro dietro di lui, e rise fra sé mentre correva attraverso la Jungla. Vide i carbonai ammucchiati in gruppo e la canna del fucile del vecchio Buldeo che si spostava, oscillando come una foglia di banana, verso tutti i punti dell'orizzonte. Poi Fratello Bigio lanciò un "Ya-la-hi! Yalaha!", che è il richiamo per la caccia al capriolo, quando il Branco innalza il "nilghai", il grosso bufalo turchino; il grido sembrava venire da ogni parte della terra, più vicino, sempre più vicino, finché terminò in un urlo troncato improvvisamente. Gli altri tre risposero in modo che Mowgli stesso avrebbe giurato che tutto il Branco fosse riunito ad urlare e poi tutti insieme attaccarono il magnifico Canto del Mattino nella Jungla, con tutte le variazioni, le fiorettature e le modulazioni che un lupo dalla voce profonda conosce. Questa che vi offro è una rozza versione di tale canto, ma voi dovete immaginarvi la potenza del suo suono, quando rompe il silenzio pomeridiano della Jungla: "Un attimo fa i nostri corpi non gettavano ombre sulla pianura; ora nitide e scure esse segnano la nostra traccia e noi ritorniamo a casa. Nella quiete del mattino, ogni roccia e ogni cespuglio si staglia netto, alto, nudo: allora lanciate il grido: 'Buon riposo a tutti quelli che osservano la Legge della Jungla!' Ora sia il bestiame cornuto che quello peloso si affretta a ripararsi, al coperto; ora, fermi e accovacciati, nella caverna o sulla collina spariscono i Capi della Jungla. Ora il canto del bovaro, forte e chiaro, si ode, mentre guida la coppia di buoi appena aggiogati; ora, striata e terribile, l'aurora avvampa sopra il 'talao' acceso. Oh! Tornate alla vostra tana! Il sole fiammeggia dietro l'erba ansimante: ed attraverso i tenui bambù scricchiolanti passano brividi di inquietudine. I boschi che attraversiamo sono resi incerti dalla luce del giorno, e li perlustriamo con occhi abbagliati; mentre l'anatra selvatica, piombando dal cielo, grida: - 'Il giorno... Il Giorno per l'Uomo!' Si è asciugata la rugiada che inzuppava la nostra pelliccia o che bagnava il nostro cammino; e dove bevemmo, la sponda melmosa sta screpolandosi e si dissecca. Il nero traditore rende visibile ogni traccia di zampa o di artiglio; allora udite il grido: 'Buon riposo a tutti quelli che osservano la Legge della Jungla!'" Ma nessuna traduzione può rendere l'effetto di tale canto e nemmeno l'accento di disprezzo che i quattro misero in ogni sua parola, quando udirono lo scricchiolio dei rami sotto il peso degli uomini che in gran fretta si arrampicavano sugli alberi; Buldeo cominciò a ripetere parole magiche e scongiuri. Poi si accucciarono e dormirono, perché, come tutti quelli che contano sulle loro sole risorse, avevano abitudini metodiche; e nessuno può lavorare bene senza aver dormito. Nel frattempo Mowgli si lasciava miglia e miglia alle spalle, nove all'ora, con passo leggero, soddisfatto di sentirsi così perfettamente in forma dopo tutti i mesi di reclusione in mezzo agli uomini. L'unica idea che aveva in testa era quella di liberare Messua e suo marito dalla trappola, qualunque essa fosse, perché aveva un'innata diffidenza per le trappole. In un secondo tempo, poi, si riprometteva di pagare abbondantemente i suoi debiti verso il villaggio. Era già il crepuscolo quando rivide i pascoli ben conosciuti e l'albero del "dhak" presso cui Fratello Bigio lo aveva atteso la mattina del giorno in cui aveva ucciso Shere Khan. Per quanto in collera con tutta la razza umana, qualcosa lo prese alla gola e gli fece trattenere il respiro, quando scorse i tetti del villaggio. Notò che tutti erano rientrati dai campi più presto del solito e che, invece di attendere il pasto della sera, se ne stavano in folla sotto l'albero del villaggio chiacchierando e gridando. - Gli uomini devono sempre architettare trappole per gli uomini, altrimenti non sono contenti - si disse Mowgli. - La notte scorsa si trattava di Mowgli, ma quella notte sembra ormai lontana molte stagioni di piogge. Questa sera, invece, è la volta di Messua e di suo marito. Domani e per molte notti ancora sarà il turno di Mowgli. Si insinuò lungo la palizzata del villaggio, finché giunse alla capanna di Messua e poté ispezionare con lo sguardo l'interno della stanza. Là Messua giaceva imbavagliata, con mani e piedi legati; respirava a fatica e gemeva: suo marito era legato alla testata variopinta del letto. La porta della capanna che dava sulla strada era saldamente chiusa e tre o quattro persone se ne stavano sedute appoggiandovi la schiena. Mowgli conosceva perfettamente gli usi e i costumi della gente del villaggio. Congetturò che fino a che erano occupati a mangiare, a chiacchierare e a fumare, non avrebbero pensato ad altro; ma, non appena si sentissero sazi, sarebbero divenuti pericolosi. Buldeo sarebbe ritornato di lì a poco, e, se la sua scorta aveva fatto il suo dovere, egli avrebbe avuto da raccontare una storia molto interessante. Perciò entrò nella capanna dalla finestra e, chinandosi sull'uomo e la donna, tagliò le corde, tolse il loro bavaglio e si guardò attorno per cercare un po' di latte. Messua era mezza impazzita dal dolore e dalla paura (per tutta la mattina l'avevano percossa e lapidata) e Mowgli le mise una mano sulla bocca appena in tempo per soffocare un suo grido. Suo marito era soltanto spaventato e incollerito e si sedette a pulire dalla polvere e dalla sporcizia la barba mezza strappata. - Sapevo... sapevo che sarebbe venuto - singhiozzò Messua alla fine. - Ora so che questo è mio figlio! - e si strinse Mowgli al cuore. Fino a quel momento Mowgli era rimasto perfettamente calmo, ma ora cominciò a tremare da capo a piedi, cosa che lo riempì di stupore. - Perché queste corde? Perché ti hanno legato? - chiese dopo una pausa. - Per mettermi a morte per averti accolto come figlio... per che altro? - rispose di scatto l'uomo. - Guarda! Io sanguino. Messua non disse nulla, ma era alle ferite di lei che Mowgli badava e lo sentirono digrignare i denti alla vista di quel sangue. - Chi ha fatto tutto ciò? - chiese. - La pagheranno cara! - E' stato tutto il villaggio. Io ero troppo ricco ed avevo troppo bestiame. Per questo lei ed io siamo stregoni, perché ti abbiamo dato ospitalità. - Non capisco. Lascia che Messua mi racconti come è andata. - Io ti ho dato il latte, Nathoo; te ne ricordi? - disse timidamente Messua. - Te l'ho dato, perché tu eri mio figlio, quello che la tigre mi aveva rapito, e perché ti volevo molto bene. Essi dicono che sono tua madre, la madre di un demonio, e perciò merito la morte. - Che cos'è un demonio? - chiese Mowgli. - La morte l'ho vista. L'uomo lo guardò torvamente, ma Messua sorrise: - Vedi? - disse rivolta al marito, - sapevo io... te l'avevo detto che non era uno stregone. E' mio figlio... mio figlio! - Figlio o stregone, che cosa può fare per noi? - rispose l'uomo. - Ormai siamo bell'e spacciati. - Laggiù c'è il sentiero che porta alla Jungla - disse Mowgli, indicando la finestra. - Avete liberi le mani e i piedi. Andate! - Noi, figlio mio, non conosciamo la Jungla come... come la conosci tu - cominciò Messua. - Non credo che riuscirò ad andar lontano. - Gli uomini e le donne si metteranno alle nostre calcagna e ci ricondurranno indietro - aggiunse il marito. - Uhm! - disse Mowgli, tormentandosi il palmo della mano colla punta del coltello; - per ora... non ho intenzione di far del male a nessuno del villaggio. Ma non credo che vi tratterranno. Fra un momento avranno molte altre cose a cui pensare. Ah! - alzò il capo e si mise ad ascoltare le urla ed il tramestio al di fuori. - Finalmente quelli hanno permesso a Buldeo di tornare a casa. - Era stato mandato stamane ad ucciderti - gridò Messua. - L'hai incontrato? - Sì... noi... io l'ho incontrato. Ha una storia da raccontare e, mentre lui chiacchiera, noi abbiamo tempo di fare molte cose. Ma, prima di tutto voglio sapere che propositi hanno. Pensate al luogo dove volete recarvi e, quando torno, ditemelo. Con un balzo scavalcò la finestra e corse di nuovo lungo la palizzata del villaggio, finché giunse a portata del rumore della folla sotto l'albero del "peepul". Buldeo era allungato a terra, tossendo e brontolando, e tutti intorno gli facevano domande. I capelli gli erano caduti sulle spalle; le mani e i piedi erano scorticati per essersi arrampicato sugli alberi e aveva appena il fiato per parlare, pur rendendosi esattamente conto dell'importanza della sua posizione. Di tanto in tanto diceva qualcosa sui demoni e diavoli urlanti, su incantesimi magici, tanto per dare alla folla il gusto di ciò che stava per venire. Poi chiese dell'acqua. - Bah! - disse Mowgli fra sé. - Chiacchiere, chiacchiere! Discorsi e discorsi! Gli Uomini sono fratelli di sangue dei "Bandar-Log". Ora deve lavarsi la bocca con dell'acqua; poi deve soffiare un po' di fumo; e, fatto tutto ciò, ha ancora la storia da narrare. E' davvero saggio il Popolo degli Uomini! Non lasceranno nessuno a guardia di Messua, fino a che non si saranno riempite le orecchie con le storie di Buldeo. E... anch'io mi sto impigrendo come loro! Si scosse e ritornò scivolando alla capanna. Era appena giunto alla finestra, quando sentì un tocco leggero sul piede. - Mamma, - disse, perché conosceva bene quella leccata - che cosa stai facendo, tu, qui? - Ho sentito i miei cuccioli cantare nel bosco e ho seguito quello a cui voglio più bene. Ranocchietto, ho voglia di vedere quella donna che ti diede il latte - rispose mamma Lupa, tutta inzuppata di rugiada. - L'hanno legata e vogliono ucciderla. Ho tagliato i suoi legami e ora, con suo marito, verrà nella Jungla. - Li seguirò anch'io. Sono vecchia, ma non ancora senza denti - e mamma Lupa si rizzò sulle zampe posteriori e guardò attraverso la finestra nell'oscurità della capanna. Dopo un attimo si lasciò ricadere senza far rumore e tutto ciò che disse fu: - Io ti ho dato il latte per prima; ma Bagheera dice la verità: l'Uomo, alla fine, ritorna all'Uomo. - Forse - rispose Mowgli con un'espressione di viva contrarietà; - ma questa sera sono ben lontano da quella traccia. Aspetta qui, ma non farti vedere. - Tu non hai mai avuto paura di me, Ranocchietto - disse mamma Lupa, ritraendosi fra l'erba alta e acquetandosi come sapeva fare. - Ed ora - disse Mowgli allegramente, rientrando d'un balzo nella capanna - sono tutti seduti attorno a Buldeo, che sta raccontando ciò che non è accaduto. Quando avrà finito, dicono che verranno certamente qua col Fiore... col fuoco e che vi bruceranno tutt'e due. E allora? - Ho parlato col mio uomo - rispose Messua. - Khanhiwara è a trenta miglia da qui, ma a Khanhiwara possiamo trovare gli Inglesi... - Che razza di Branco è questo? - domandò Mowgli. - Non lo so. Sono bianchi e si dice che governino tutto il paese e che non permettano che la gente si colpisca o si bruci senza testimonianze precise. Se riusciamo ad arrivare là stanotte, siamo salvi. Altrimenti è la morte sicura. - Allora, siete salvi. Nessuno varcherà questa notte le porte del villaggio. Ma quello che cosa sta facendo? - Il marito di Messua, inginocchiato per terra, stava scavando in un angolo della capanna con le mani. - E la sua piccola riserva di denaro - rispose Messua. - Non possiamo portare nient'altro con noi. - Ah, sì. Quella roba che passa da una mano all'altra, senza diventare mai calda. Serve anche lontano da qui? - chiese Mowgli. L'uomo lo guardò irritato. - E' uno stupido, non un demonio - brontolò. - Con il denaro posso comperare un cavallo. Siamo troppo malconci per camminare a lungo e il villaggio, nel giro di un'ora, si metterà al nostro inseguimento. - Vi dico che non vi seguiranno, finché io non lo vorrò. Ma quella del cavallo è una buona idea, perché Messua è stanca. L'uomo si alzò e annodò l'ultima rupia nella cintola della veste. Mowgli aiutò Messua ad uscire dalla finestra, e l'aria fresca della notte la rinfrancò; ma la Jungla alla luce delle stelle appariva oscura e terribile. - Conoscete la traccia per Khanhiwara? - sussurrò Mowgli. Fecero cenno di sì. - Bene. Ora ricordatevi di non avere paura. E non c'è nessun bisogno di andare in fretta. Soltanto... potrete udire dei canti nella Jungla davanti e dietro a voi. - Credi che avremmo rischiato di attraversare la Jungla di notte, se non fosse stato per la paura di essere arsi vivi? Meglio essere uccisi dalle belve che dagli uomini - disse il marito di Messua; ma Messua guardava Mowgli e sorrideva. - Ho detto - continuò Mowgli, proprio come se fosse Baloo che ripeteva per l'ennesima volta una vecchia Legge della Jungla ad un cucciolo sciocco. - Ho detto che nemmeno un dente nella Jungla vi si mostrerà e nemmeno una zampa nella Jungla si alzerà su di voi. Né uomini, né belve vi fermeranno, finché non arriverete in vista di Khanhiwara. C'è qualcuno che veglia sopra di voi. - Si rivolse rapidamente a Messua: - Lui non ci crede, ma tu sì, vero? - Sì, certo, figlio mio. Uomo, spirito o lupo della Jungla, io ti credo. - "Lui" si spaventerà, quando sentirà il mio popolo cantare. Ma tu lo sai e mi capisci. Ora andate e con calma, perché non c'è alcun bisogno di affrettarsi. Le porte del villaggio sono chiuse. Messua si gettò singhiozzando ai piedi di Mowgli, ma egli la rialzò lesto con un tremito. Allora la donna si appese al collo di lui e lo chiamò con tutti i nomi più affettuosi che le vennero in mente, ma il marito, guardando con rimpianto la distesa dei suoi campi, disse: - Se raggiungiamo Khanhiwara e riesco a farmi ascoltare dagli Inglesi, intenterò un tale processo contro il Bramino e contro il vecchio Buldeo e tutti gli altri, da divorare fino all'osso l'intero villaggio. Mi ripagheranno due volte i miei raccolti perduti ed i miei bufali abbandonati. Otterrò finalmente giustizia. Mowgli rise: - Non so che sia la giustizia, ma... vieni alla prossima stagione delle piogge e vedrai ciò che sarà rimasto. Si allontanarono in direzione della Jungla e mamma Lupa balzò fuori dal suo nascondiglio. - Seguili! - disse Mowgli - e bada che tutta la Jungla sappia che devono arrivare tutt'e due sani e salvi. Lancia un richiamo. Vorrei qui Bagheera. Il lungo, cupo ululato si levò alto e poi si smorzò e Mowgli vide il marito di Messua vacillare e voltarsi, con una mezza intenzione di tornare alla capanna. - Va' avanti - lo incoraggiò Mowgli in tono cordiale. - Ti ho detto che avreste sentito cantare. Questo richiamo vi seguirà sino a Khanhiwara. E' il Favore della Jungla. Messua spinse avanti il marito, e l'oscurità si rinchiuse su di loro e su mamma Lupa, mentre Bagheera balzava ai piedi di Mowgli, tremante di delizia nella eccitante notte della Jungla. - Mi vergogno per i tuoi fratelli - disse, ronfando. - Che c'è? Non hanno cantato una dolce canzone a Buldeo? - chiese Mowgli. - Anche troppo! Hanno fatto perdere la dignità anche a me e, per la Serratura Rotta che mi ha liberato, me ne sono andata anch'io cantando per la Jungla, come se facessi all'amore in primavera! Non ci hai sentiti? - Avevo altro da fare. Chiedilo a Buldeo, se il canto gli è piaciuto. Ma i quattro dove sono? Non voglio che un solo uomo del Branco esca questa notte dalle porte del villaggio. - E c'è bisogno dei quattro per questo? - disse Bagheera, molleggiandosi sulle zampe, con gli occhi brillanti, mentre ronfava più forte che mai. - Posso trattenerli io, Fratellino. Ci sarà da uccidere, alla fine? Il canto e la vista degli uomini che si arrampicavano sugli alberi mi hanno messo il fuoco nel sangue. Che cos'è l'Uomo perché ci si debba preoccupare di lui? Quel bruno zappatore nudo, quell'essere senza denti e senza pelo, quel mangiatore di terra? L'ho seguito tutto il giorno, nel meriggio, in piena luce. L'ho fatto girare a mio piacimento, come i lupi fanno con i caprioli. Io sono Bagheera! Bagheera! Bagheera! Come ballo con la mia ombra, così ho ballato con quegli uomini. Guarda! - e la grande pantera si mise a spiccar salti come un gattino che balza su una foglia morta che gli volteggia sopra la testa, colpì a destra e a sinistra nel vuoto, facendo fischiare l'aria; ricadeva senza rumore e di nuovo balzava, mentre quel suono che era per metà ronfare e per metà ruggire aumentava sempre più come il rumore del vapore che preme contro le pareti di una caldaia. - Sono Bagheera... nella Jungla... nella notte, e so qual è la mia forza. Chi può resistere al mio colpo? Cucciolo d'Uomo, con un colpo della mia zampa potrei appiattirti la testa sino a renderla simile ad un ranocchio schiacciato d'estate! - Colpisci, dunque! - disse Mowgli nel dialetto del villaggio e non nel linguaggio della Jungla e le parole umane inchiodarono di botto Bagheera che ricadde con un fremito sulle zampe col muso proprio all'altezza della testa di Mowgli. Questi la fissò ancora una volta, come aveva fissato i cuccioli ribelli, la fissò a fondo negli occhi verde berillo, finché la fiamma rossa dietro al verde dell'iride si spense, come si spegne un faro venti miglia lontano sul mare; finché gli occhi si abbassarono e la grossa testa ricadde sempre più in giù, e la ruvida lingua rossa leccò il piede di Mowgli. - Fratello... Fratello... Fratello! - sussurrò il ragazzo passandole rapidamente e lievemente la mano sul collo e lungo il dorso inarcato: - Stai calmo! Stai calmo! E' colpa della notte, non tua. - Era il profumo della notte - rispose Bagheera in tono pentito. - Quest'aria mi stordisce pesantemente. Ma come fai a saperlo? Naturalmente l'aria che circonda un villaggio indiano è piena di ogni specie di odori e un essere che sente e pensa si può dire con il naso, può essere stordito dagli odori, come gli esseri umani lo sono dalla musica o dalle droghe. Mowgli quietò la pantera ancora per qualche minuto, finché si distese come un gatto davanti al fuoco, con le zampe piegate sotto il petto e gli occhi socchiusi. - Tu sei della Jungla eppure non lo sei - disse alla fine. - E io sono solamente una pantera nera. Ma ti voglio bene, Fratellino. - E' un pezzo che stanno chiacchierando sotto l'albero - riprese Mowgli, senza badare all'ultima frase. - Buldeo deve aver raccontato un sacco di storie. Presto dovrebbero andare a tirar fuori dalla trappola la donna e suo marito per gettarli nel Fiore Rosso. Troveranno che la trappola si è rotta. Oh, oh! - No, senti - disse Bagheera. - La febbre che avevo nel sangue mi si è placata ora. Lascia che trovino me là dentro! Pochi avranno ancora il coraggio di uscir di casa, dopo avermi incontrata. Non sarebbe la prima volta che sono stata in gabbia; e non credo che legheranno proprio me con delle corde. - Sii prudente, allora - le rispose Mowgli ridendo, perché cominciava a sentirsi temerario come la pantera che era scivolata nella capanna. - Puah! - brontolò Bagheera, - questo posto puzza maledettamente di Uomo, ma c'è qui un giaciglio come quello che mi diedero per stendermi nelle gabbie del Re a Oodeypore. Ora mi ci allungo. - Mowgli udì le molle del lettuccio scricchiolare sotto il peso della grande belva. - Per la Serratura Rotta che mi ha liberato, penseranno di aver catturato una grossa preda! Vieni a sederti vicino a me, Fratellino; augureremo loro insieme la «Buona caccia!». - No, ho un'altra idea in mente. Il Branco degli Uomini non deve sapere qual è la mia parte in questo gioco. Caccia per conto tuo. Non desidero vederli. - Come vuoi - rispose Bagheera. - Ah, eccoli che vengono! I discorsi sotto l'albero del "peepul" erano andati facendosi sempre più rumorosi all'altra estremità del villaggio; poi si ruppero in urla selvagge e nella strada si riversò una valanga di uomini e donne che agitavano bastoni e bambù, falci e coltelli. La guidavano Buldeo e il Bramino, ma la folla li seguiva da presso, gridando: - La strega e lo stregone! Vediamo se le monete roventi li faranno confessare! Bruciate la capanna sulle loro teste! Insegneremo loro a dare ospitalità a demoni-lupi! No, prima bastonateli! Torce, altre torce! Buldeo, tienti pronto col fucile! Incontrarono qualche difficoltà a forzare il chiavistello della porta. Era stato chiuso molto saldamente, ma la folla lo infranse a viva forza e la luce delle torce si proiettò nella stanza dove, distesa sul letto in tutta la sua lunghezza, con le zampe incrociate e un po' penzoloni, nera come l'inferno e terribile come un demonio, stava Bagheera. Vi fu un mezzo minuto di silenzio disperato, mentre l'avanguardia della folla si apriva a graffi e a spallate la via verso l'uscio ed in quell'attimo Bagheera alzò la testa e sbadigliò - lentamente, con impegno, con ostentazione - come avrebbe sbadigliato per insultare un pari suo. Le labbra frangiate si aprirono e si ritrassero; la rossa lingua si arrotolò; la mascella inferiore si abbassò sempre più fino a scoprire per metà le fauci ardenti; i canini giganteschi apparvero nudi fino all'orlo delle gengive e poi sbatterono insieme, i superiori e gli inferiori, con lo scatto della serratura d'acciaio di una cassaforte che si richiude. Un attimo dopo la strada era deserta; Bagheera era balzata fuori attraverso la finestra, e stava presso Mowgli mentre una marea urlante ed atterrita cercava disperatamente di raggiungere un rifugio. - Non oseranno fare il minimo movimento fino a quando farà giorno - disse tranquillamente Bagheera. - Ed ora? Si sarebbe detto che il villaggio fosse immerso nel sonno pomeridiano; ma, ad aguzzare l'orecchio, si poteva udire il rumore di pesanti casse di grano trascinate sul terreno e spinte a puntellare le porte. Bagheera aveva perfettamente ragione; il villaggio non si sarebbe mosso fino all'alba. Mowgli sedeva in silenzio e pensava, mentre sul volto gli si dipingeva un'espressione sempre più cupa. - Che cosa ho fatto? - chiese finalmente Bagheera, saltandogli carezzevole ai piedi. - Un'ottima azione. Tienli a bada fino a quando farà giorno. Io dormo. - Mowgli corse fuori nella Jungla e si lasciò cadere come un corpo morto su una rupe; e dormì per tutto quel giorno e anche tutta la notte successiva. Quando si svegliò, Bagheera era presso di lui e ai suoi piedi c'era un capriolo appena ucciso. Bagheera stette ad osservarlo incuriosita, mentre Mowgli lavorava con il suo coltello acuminato; il ragazzo mangiò e appoggiò il mento alla mano. - L'uomo e la donna sono giunti sani e salvi in vista di Khanhiwara - lo informò Bagheera. - Mamma Lupa ha mandato un messaggio per mezzo di Chil, l'Avvoltoio. Hanno trovato un cavallo prima di mezzanotte, la sera in cui sono stati liberati, e sono arrivati rapidamente. Non va bene? - Va bene - rispose Mowgli. - E il tuo Branco degli Uomini, al villaggio, non s'è mosso fino a quando il sole non è stato alto, questa mattina. Poi hanno mangiato e sono tornati di corsa a chiudersi nelle capanne. - Ti hanno visto, per caso? - Può darsi. Stavo rotolandomi nella polvere davanti alle porte del villaggio, all'alba, e può darsi anche mi sia canterellata una canzoncina fra me e me. Ora, Fratellino, non c'è altro da fare. Vieni a cacciare con me e con Baloo. Ha certi nuovi alveari che vuol mostrarti e tutti desideriamo che tu torni fra noi come un tempo. Smettila di fissarmi con quello sguardo che mi mette a disagio! L'uomo e la donna non saranno gettati nel Fiore Rosso e tutto va bene nella Jungla. Non è vero? Dimentichiamo il Branco degli Uomini. - Fra poco saranno dimenticati. Dove pascola questa notte Hathi? - Dove gli pare. Chi può rispondere per il Silenzioso? Ma perché? Che cosa c'è che possa fare Hathi e che noi non si possa? - Digli di venir qui con i suoi tre figli. - Ma, veramente, ad essere sinceri, Fratellino, non sta... non sta bene dire ad Hathi «vieni qui» o «va' là». Ricordati, è lui il Padrone della Jungla e, prima che il Branco degli Uomini ti avesse fatto cambiare espressione, egli ti ha insegnato le Parole Maestre della Jungla. - Non importa. Ho io ora una Parola Maestra per lui. Pregalo di venire da Mowgli, il Ranocchio; e, se non vuol darti subito ascolto, digli di venire in nome del Saccheggio dei Campi di Bhurtpore. - Saccheggio dei Campi di Bhurtpore - ripeté due o tre volte Bagheera, per afferrare bene la Parola. - Vado; alla peggio Hathi si arrabbierà; ma darei un mese di caccia per udire la Parola Maestra che imporrà obbedienza al Silenzioso. E se ne andò, lasciando Mowgli che tormentava furiosamente il terreno col suo coltello. Mowgli non aveva mai visto sangue umano prima di vedere e - ciò che per lui significava molto di più - prima di odorare il sangue di Messua sulle cinghie che tenevano legata la donna. E Messua era stata buona con lui e, per quel poco che sapeva dell'amore, egli amava Messua con la stessa intensità con cui odiava il resto del genere umano. Ma, per quanto lo disgustassero profondamente, ed avesse orrore dei loro discorsi, della loro ferocia e della loro viltà, nulla di ciò che avrebbe potuto offrirgli la Jungla lo avrebbe spinto a spegnere una vita umana e a risentire quel terribile odore di sangue nelle narici. Il suo progetto era più semplice, ma molto più radicale; ed egli sorrideva fra sé pensando che era stato uno dei racconti di Buldeo, narrati sotto l'albero del "peepul" la sera, che gli aveva messo quell'idea in testa. - Era davvero una Parola Maestra - gli sussurrò Bagheera nelle orecchie. - Stavano mangiando presso il fiume e hanno obbedito come se fossero buoi. Guarda, eccoli che vengono! Hathi e i suoi tre figli erano giunti, secondo la loro abitudine, senza farsi sentire. Il fango del fiume era ancora fresco sui loro fianchi ed Hathi, assorto nei suoi pensieri, stava masticando il tronco verde di un alberello che aveva sradicato con le zanne. Ogni linea del suo enorme corpo mostrava a Bagheera, mentre lo guardava avvicinarsi a loro, che non era il Padrone della Jungla in atto di parlare a un Cucciolo d'Uomo, ma uno che aveva paura di comparire davanti a uno che paura non aveva. I suoi tre figli gli trottavano dietro, con la loro andatura dondolante. Mowgli levò appena il capo a fatica quando Hathi gli augurò «Buona caccia!». Lo tenne dinanzi a sé a dondolarsi ora su un piede ora sull'altro per un pezzo prima di parlare; e quando aprì bocca, si rivolse a Bagheera e non agli elefanti. - Vi racconterò una storia che mi fu narrata dal cacciatore a cui oggi avete dato la caccia - incominciò Mowgli. - Riguarda un vecchio e saggio elefante che cadde in una trappola e fu segnato dalla spalla al garretto da una bianca cicatrice prodotta dal piolo appuntito piantato in fondo alla fossa. - Mowgli alzò la mano e, mentre Hathi si voltava, la luce lunare mise in evidenza una lunga cicatrice bianca sul suo fianco grigio, come se lo avesse sferzato una frusta rovente. - Vennero gli uomini per farlo uscire dalla trappola - continuò Mowgli - ma egli spezzò le corde perché era molto forte, e scappò fino a che la ferita non fu guarita. Allora, pieno di collera, tornò di notte ai campi di quei cacciatori. Ora ricordo che aveva tre figli. Queste cose avvennero molte e molte piogge fa, e molto lontano di qui... in mezzo ai campi di Bhurtpore. Che cosa accadde in quei campi all'epoca della mietitura, Hathi? - Furono mietuti da me e dai miei tre figli - rispose Hathi. - E l'aratura che tien dietro alla mietitura? - Non vi fu più aratura. - E che avvenne agli uomini che vivevano dei verdi raccolti di quel terreno? - chiese ancora Mowgli. - Se ne andarono via. - E alle capanne in cui gli uomini dormivano? - Facemmo a pezzi i tetti e la Jungla ne inghiottì i muri - rispose Hathi. E che altro accadde? - continuò Mowgli. - La Jungla invase tanto terreno buono da est a ovest quanto io posso percorrerne in due notti, e da nord a sud quanto posso percorrerne in tre notti. Facemmo inghiottire dalla Jungla cinque villaggi; e in essi e nelle loro terre, sia pascoli sia terreni coltivati, non vi è oggi un solo uomo che possa trarre dal suolo il suo sostentamento. Questo fu il Saccheggio dei Campi di Bhurtpore che portammo a termine io ed i miei tre figli; e ora, Cucciolo d'Uomo, posso chiederti come hai appreso queste notizie? - concluse Hathi. - Me le ha raccontate un uomo, e vedo che anche Buldeo può talvolta dire la verità. Fu una cosa ben fatta, Hathi dalla bianca cicatrice; ma la seconda volta sarà fatta ancor meglio perché ci sarà un uomo a dirigere. Conosci il villaggio del Branco degli Uomini che mi ha scacciato? Sono oziosi, stupidi e crudeli; si trastullano con le ciance e non ammazzano chi è più debole per nutrirsene, ma solo per divertimento. Quando sono sazi, sono pronti a gettare anche i loro simili nel Fiore Rosso. L'ho visto coi miei occhi. Non è ammissibile che continuino ancora a vivere qui. Io li odio! - Uccidi, allora! - disse il più giovane dei figli di Hathi, strappando un ciuffo d'erba, sbattendolo sulle zampe anteriori per liberarlo dal terriccio e gettandolo via, mentre i suoi occhietti rossi si muovevano qua e là furtivi e scintillanti. - A che mi servono delle ossa bianche? - rispose irato Mowgli. - Sono un Cucciolo di Lupo per giocare al sole con un cranio spolpato? Ho ucciso Shere Khan e la sua pelle sta marcendo sulla Rupe del Consiglio; ma... ma io non so dove sia andato Shere Khan e il mio stomaco è ancora vuoto. Ora voglio prendere ciò che posso vedere e toccare. Fa' che la Jungla invada il villaggio, Hathi! Bagheera fremette e si accosciò; poteva capire, nel peggiore dei casi, una rapida incursione per la strada del villaggio, e una tempesta di colpi a destra e a sinistra in mezzo alla folla, o un'audace aggressione agli uomini intenti ad arare, all'ora del crepuscolo; ma questo piano di cancellare deliberatamente un intero villaggio dalla vista degli uomini e delle belve la spaventava. Ora capiva perché Mowgli l'aveva mandata a chiamare Hathi. Solo il vecchio elefante poteva progettare ed eseguire un simile sterminio. - Fa' che scappino come gli uomini scapparono dai campi di Bhurtpore; fino a che solo la pioggia ari le loro terre e il suo scrosciare sulle foglie folte tenga il posto del rumore dei loro fusi... fino a che Bagheera e io possiamo farci una tana nella casa del Bramino, ed il capriolo possa abbeverarsi alla cisterna che sta dietro il tempio! Fa' che la Jungla inizi la sua invasione, Hathi! - Ma io... ma noi non abbiamo alcun contrasto con loro e ci vuole il rosso furore che nasce da un dolore insopportabile per indurci a distruggere i luoghi dove gli uomini dormono - disse Hathi esitante. - Siete voi gli unici erbivori della Jungla? Spingete innanzi gli altri. Lascia che i cervi, i cinghiali ed i "nilgau" facciano la loro parte. Non avrete bisogno di mostrare una spanna di pelle, finché i campi non saranno devastati. Fa' che la Jungla invada ogni cosa, Hathi! - Non ci sarà da uccidere? Le mie zanne erano rosse al Saccheggio dei Campi di Bhurtpore e non vorrei risvegliare quell'odore. - Neppur io. Non voglio nemmeno che le loro ossa restino sulla terra così spianata. Lasciamoli andare a cercarsi nuove tane; non possono stare qui. Ho visto e odorato il sangue della donna che mi nutrì... la donna che, se non fosse stato per me, avrebbero uccisa. Solo l'odore dell'erba nuova che crescerà sui gradini delle loro case potrà far scomparire quell'altro, che mi brucia in bocca. Fa' che la Jungla invada tutto, Hathi! - Ah! - disse Hathi. - Così la cicatrice prodotta dal piolo mi bruciava il fianco, fino al giorno in cui vedemmo i loro villaggi sommersi sotto la fioritura primaverile. Ora capisco: la tua guerra sarà la nostra guerra. Faremo che la Jungla invada ogni cosa! Mowgli ebbe appena il tempo di respirare - era scosso dappertutto da un fremito di odio e di collera - che il posto dove stavano gli elefanti era vuoto; Bagheera lo osservava con terrore. - Per la Serratura Spezzata che mi ha liberato! - disse la Pantera Nera alla fine - sei proprio tu quell'essere nudo in favore del quale io ho parlato davanti al Branco, quando eravamo tutti giovani? Padrone della Jungla, quando le mie forze mi abbandoneranno, parla in mio favore... parla per Baloo... parla per tutti noi! Siamo dei cuccioli al tuo cospetto! Ramoscelli spezzati sotto i tuoi piedi! Cerbiatti che hanno smarrito la loro madre! L'idea che Bagheera fosse un cerbiatto smarrito divertì moltissimo Mowgli che scoppiò a ridere, poi si fermò a prender fiato, rise di nuovo sino ad avere il singhiozzo e infine dovette gettarsi in uno stagno per calmarsi. Fece una nuotata, tuffandosi dentro e fuori al raggio della luna, come il ranocchio suo omonimo. Nel frattempo Hathi ed i suoi tre figli si erano volti ciascuno verso uno dei punti cardinali e si erano incamminati silenziosamente giù per le vallate a un miglio di là. Proseguirono senza arrestarsi per due giorni di marcia - il che significa una buona sessantina di miglia - attraverso la Jungla; ogni loro passo, ogni ondeggiare della loro proboscide, erano visti, notati e riferiti da Mang, da Chil, dal Popolo delle Scimmie e da tutti gli uccelli. Poi cominciarono a mangiare e mangiarono tranquillamente per una settimana o giù di lì. Hathi e i suoi figli sono come Kaa, il Pitone della Rupe. Non hanno mai fretta, finché non è necessario. Alla fine di questo tempo si sparse nella Jungla la voce - non si sa messa in giro da chi - che si poteva trovar cibo e acqua migliori in questa o in quella valle. I cinghiali - che, com'è noto, andrebbero in capo al mondo pur di potersi rimpinzare - si mossero per primi in branchi, azzuffandosi su per le rocce, e li seguirono i cervi e le piccole volpi selvatiche che vivono degli animali morti o moribondi delle mandrie; il "nilgau", dalle spalle massicce, si mosse insieme ai cervi, e tennero loro dietro i bufali selvatici delle paludi. Il minimo sospetto avrebbe potuto far tornare indietro le bestie disperse e vagabonde che pascolavano, si disperdevano e bevevano per poi tornare a pascolare; ma ogni volta che si spargeva una voce d'allarme veniva fuori subito qualcuno a tranquillizzarle. Ora era Ikki il Porcospino che portava notizie di buon cibo appena un poco più avanti; ora era Mang che strideva allegramente e si abbassava sulle radure per mostrare che non c'era nulla da temere; ora era Baloo, con la bocca piena di radici, che percorreva in su e in giù una fila esitante e, mezzo scherzando e mezzo spaventandoli, li riportava tutti sulla strada giusta. Molti tornarono indietro o scapparono via o si disinteressarono dell'impresa, ma moltissimi continuarono a spingersi avanti. Dopo un'altra decina di giorni, la situazione era questa: i cervi, i cinghiali e i "nilgau" giravano tutt'attorno a un cerchio dal raggio di otto o dieci miglia mentre i Mangiatori di Carne facevano schermaglia ai limiti di esso. Al centro di quel cerchio era il villaggio, e attorno al villaggio le messi stavano maturando e in mezzo ad esse facevan la guardia degli uomini che, seduti su ciò che essi chiamano "machans" - piattaforme simili a piccionaie, costituite da tavole poste in cima a quattro pali - erano attenti a tener lontani uccelli o altri ladri. Allora non fu più necessario attrarre i cervi, perché i Mangiatori di Carne li incalzavano alle spalle e li costringevano a proseguire sempre più avanti. Era una notte buia quella in cui Hathi ed i suoi tre figli sbucarono dalla Jungla e divelsero i pali dei "machans" con le proboscidi; essi caddero come steli della cicuta in fiore e gli uomini sbalzati fuori udirono il profondo gorgoglio degli elefanti. Allora l'avanguardia dell'esercito atterrito dei cervi irruppe nei pascoli e nei campi arati del villaggio; ed i cinghiali dallo zoccolo tagliente accorsero grufolando e devastarono ciò che i cervi avevano lasciato; di tanto in tanto un allarme di lupi spaventava le mandrie che si buttavano a correre all'impazzata, calpestando l'orzo novello e sfondando gli argini dei canali d'irrigazione. Prima dell'alba la pressione all'esterno del circolo cedette in un punto. I Mangiatori di Carne erano tornati indietro, lasciando aperto un varco verso il sud, e attraverso di esso si precipitarono i caprioli, un branco sull'altro. Altri, più arditi, rimasero fra le macchie per finire il loro pasto la notte seguente. Ma l'opera, praticamente, era compiuta. Quando i contadini al mattino guardarono, videro che i loro raccolti erano andati perduti. E questo per loro significava la morte, se non se ne fossero andati, perché vivevano da un anno all'altro, tanto più minacciati dalla carestia quanto più erano vicini alla Jungla. Quando i bufali affamati furono inviati al pascolo, trovarono che i cervi avevano devastato i pascoli e si buttarono a vagabondare per la Jungla, unendosi ai loro compagni selvatici. Quando poi scese il crepuscolo, i tre o quattro cavallini che costituivano il patrimonio comune del villaggio giacevano nelle loro stalle con la testa schiacciata. Soltanto Bagheera poteva aver assestato simili zampate e solo lei poteva aver avuto l'insolente idea di trascinare le loro carogne nel bel mezzo della strada. I contadini non ebbero il coraggio di accendere i fuochi nei campi quella notte, così che Hathi e i suoi tre figli si sparsero a spigolare ciò che era rimasto; e dove spigola Hathi è inutile rimetter piede. Gli uomini decisero di vivere delle scorte di grano serbato per la semina sin alla fine della stagione delle piogge e di cercare poi lavoro come servi finché non riuscissero a rifarsi dell'annata perduta; ma, mentre il mercante di grano pensava alle sue ceste ben colme e calcolava il prezzo che avrebbe potuto ricavare dalla vendita, le zanne appuntite di Hathi demolivano l'angolo della sua capanna di fango e sfondavano le grosse ceste di vimini, coperte di sterco di vacca, dove era riposta la merce preziosa. Dopo la scoperta di quest'ultima perdita, toccò al Bramino parlare. Aveva pregato i suoi dèi senza ricevere ascolto. Forse, egli disse, gli abitanti del villaggio avevano offeso inconsciamente una delle divinità della Jungla, perché non c'era dubbio che la Jungla era contro di loro. Allora mandarono a chiamare il capo della più vicina tribù nomade di Gonds - piccoli, astuti, nerissimi cacciatori, che vivevano nel cuore della Jungla, i cui padri discendevano dalla più antica razza dell'India - i primi padroni del territorio. Offersero al Gond la migliore accoglienza consentita dal poco che ancora possedevano e questo, stando su una gamba sola, con l'arco in mano e due o tre frecce avvelenate infilate nella crocchia dei capelli, guardava mezzo spaventato e mezzo sprezzante i contadini angosciati e i loro campi devastati. Essi volevano sapere da lui se i suoi dèi - gli antichi dèi del paese - erano in collera con loro e quali sacrifici avrebbero dovuto offrire per placarli. Il Gond non disse nulla ma, strappato un tralcio di "karela", la vite che produce l'amara zucca selvatica, lo intrecciò attraverso la porta del tempio, di fronte all'immagine dagli occhi sbarrati del dio indiano. Poi tracciò un gesto nell'aria indicando la strada di Khanhiwara e ritornò alla sua Jungla, ad osservare il Popolo della Jungla che la percorreva. Sapeva che quando la Jungla si muove solo gli uomini bianchi possono sperare di farla tornare indietro. Non c'era bisogno di chiedergli che si spiegasse meglio. La zucca selvatica sarebbe cresciuta sul luogo dove essi avevano adorato il loro dio; e più presto si sarebbero messi in salvo, meglio sarebbe stato per loro. Ma è difficile sradicare un villaggio dalle sue fondamenta. Gli abitanti restarono finché rimase loro qualche provvista estiva; poi cercarono di raccogliere noci nella Jungla, ma qui li fissavano ombre con occhi fiammeggianti che comparivano loro dinanzi perfino in pieno giorno; quando correvano a rifugiarsi spaventati fra le loro mura, i tronchi degli alberi davanti a cui erano passati nemmeno cinque minuti prima avevano la corteccia graffiata e strappata dai colpi di una grossa zampa unghiata. Più gli abitanti si asserragliavano nel villaggio e più arditi si facevano gli esseri selvatici che scorrazzavano mugghiando per i prati della Waingunga. Non facevano a tempo a raddrizzare e a riparare i muri posteriori delle stalle vuote che davano sulla Jungla, che i cinghiali li distruggevano di nuovo, mentre le viti dalle radici nodose crescevano rapide e stringevano nel loro abbraccio il terreno appena conquistato, seguite immediatamente dall'erba fitta ed irta, come le lance di un esercito di folletti che inseguisse il nemico in ritirata. Gli uomini che non avevano famiglia fuggirono per primi, spargendo lontano e vicino la notizia che il villaggio era condannato. Chi poteva combattere, dicevano, contro la Jungla e gli dèi della Jungla, quando perfino il cobra del villaggio aveva abbandonato il suo covo sotto l'albero del "peepul"? Così i loro pochi contatti col mondo esteriore si ridussero come si restringevano e si cancellavano i sentieri battuti attraverso la pianura. Finalmente i barriti notturni di Hathi e dei suoi tre figli cessarono di ossessionarli: perché non avevano ormai più nulla che potesse esser loro sottratto. I raccolti nei campi e le sementi nella terra erano stati distrutti. I campi tutto attorno perdevano già i loro confini ed era tempo ormai di rivolgersi alla carità degli Inglesi di Khanhiwara. Con la mentalità degli indigeni, essi rimandarono da un giorno all'altro la loro partenza, così che furono sorpresi dalle prime piogge: i tetti crollanti lasciarono passare i rovesci d'acqua e nei pascoli si affondò fino alla caviglia e tutta la vegetazione ebbe un improvviso rigoglioso sviluppo dopo i calori estivi. Allora uomini, donne e bambini si allontanarono a guado, sotto la pioggia calda e accecante del mattino, ma si volsero naturalmente a dare un ultimo sguardo di addio alle loro case. Quando l'ultima famiglia stava uscendo dalle porte del villaggio sotto il carico delle masserizie, si udì uno schianto di travi e di tetti di paglia dietro i muri. Una proboscide nera e lucida come una serpe fu vista per un attimo rizzarsi a sparpagliare la paglia dei tetti. Disparve e vi fu un altro schianto seguito da un sinistro barrito. Hathi stava strappando i tetti dalle case come noi potremmo coglier ninfee ed era stato colpito di rimbalzo da una trave. Non ci voleva che questo per scatenare in pieno la sua forza perché di tutti gli esseri della Jungla l'elefante selvatico, quando è infuriato, è animato dalla più cieca furia devastatrice. Martellò di calci un muro di creta, che, sotto quei colpi, crollò e si dissolse in un fango giallo sotto la pioggia torrenziale. Poi si girò su se stesso e barrì in modo terribile, e si precipitò in una corsa rovinosa fra le strade strette, urtando a destra e a sinistra le capanne, scardinando le porte, demolendo i tetti, mentre i suoi tre figli infuriavano dietro a lui così come avevano infuriato al Saccheggio dei Campi di Bhurtpore. - La Jungla inghiottirà questi resti - disse una voce tranquilla in mezzo a quel disastro. - Resta solo da abbattere il muro di cinta - e Mowgli, mentre la pioggia gli scorreva sulle spalle nude e sulle braccia, spiccò un salto da un muro che si accasciò come un bufalo stanco. - Tutto a tempo debito - sbuffò Hathi. - Ah, se avessi visto come erano rosse le mie zanne a Bhurtpore! Al muro di cinta, ragazzi! Con la testa! Tutti insieme! Forza! I quattro spinsero affiancati uno all'altro; il muro di cinta s'incurvò, si spaccò e cadde e gli abitanti del villaggio, ammutoliti per l'orrore, videro le teste selvagge striate di creta dei devastatori sbucar fuori dalla breccia. Allora fuggirono, senza più casa né cibo, giù per la valle, mentre il loro villaggio frantumato, sconquassato e calpestato, si disfaceva dietro di loro. Un mese dopo il luogo non era che un'altura ondulata, coperta di tenera verzura; e verso la fine della stagione delle piogge la Jungla ruggente imperava rigogliosa là dove nemmeno sei mesi prima era passato l'aratro. La canzone di Mowgli contro il suo Popolo. Voglio sciogliere contro di voi le liane dai piedi agili, voglio chiamare la Jungla per cancellare i vostri confini! I tetti crolleranno davanti a lei, le travi delle case cadranno e il "karela", l'amaro "karela" coprirà tutto! Alle porte di questi vostri Consigli canterà il mio popolo, sulle soglie dei vostri granai si aggrapperanno i Pipistrelli; e il serpente sarà il vostro guardiano presso il focolare abbandonato, perché il "karela", l'amaro "karela" farà frutti dove voi avete dormito! Non vedrete i miei assalitori; li udrete e li immaginerete; di notte, prima che si levi la luna, manderò a riscuotere la mia taglia e il lupo sarà il vostro pastore presso una pietra di confine rimossa, perché il "karela", l'amaro "karela" germoglierà dove voi avete amato! Io mieterò i vostri campi prima di voi col mio esercito; voi spigolerete dietro i miei mietitori per il pane ormai perduto e il cervo sarà il vostro bue su un campo incolto, perché il "karela", l'amaro "karela" coprirà con le sue foglie i luoghi dove voi avete costruito! Ho sciolto contro di voi le liane dai piedi robusti, ho mandato la Jungla a sommergere i vostri confini! Gli alberi, gli alberi vi sovrastano! Le travi delle case cadranno, e il "karela", l'amaro "karela" coprirà tutto. 4. I BECCAMORTI. Quando dici a Tabaqui «Fratello mio», quando chiami la Jena al banchetto, puoi gridare la Tregua Piena con Jacala - il Ventre che corre su quattro zampe. Legge della Jungla. - Rispettate i vecchi. Era una voce roca e cavernosa che vi avrebbe messo i brividi, una voce simile a qualcosa di morbido che si fosse spezzato in due. C'era in essa un tremolio, fra il gracchiare e il guaire. Sull'ampia distesa del fiume non si scorgeva nulla all'infuori di una flottiglia di chiatte dalle vele quadre, cariche di pietre da costruzione, che stava passando sotto il ponte della ferrovia e discendeva la corrente. Alzarono i pesanti timoni, per evitare il banco di sabbia formato dalla corrente intorno ai piloni del ponte; e mentre passavano in file di tre l'orribile voce riprese: - O Bramini del Fiume, rispettate i vecchi e gli infermi! Un barcaiolo, seduto sul bordo, si volse, alzò una mano, disse qualcosa che non doveva essere una benedizione, e le imbarcazioni scricchiolanti continuarono il loro viaggio nella luce crepuscolare. Il vasto fiume indiano, simile più ad un susseguirsi di piccoli laghi che ad un vero fiume, era liscio come uno specchio e rifletteva nel mezzo della corrente il cielo rossastro, mentre vicino e sotto le sponde basse era cosparso di chiazze gialle e porporine. Nella stagione delle piogge piccoli torrentelli si gettavano nel fiume, ma ora le loro foci prosciugate emergevano sopra il pelo dell'acqua. Sulla sponda sinistra, e quasi sotto il ponte della ferrovia, sorgeva un villaggio di capanne fatte di argilla e di mattoni, di legname e di paglia, la cui strada principale, ingombra di bestiame che tornava alle stalle, conduceva diritto al fiume e terminava in una specie di gettata di mattoni, dove la gente che voleva bagnarsi poteva scendere passo passo. Quello era il Ghaut del villaggio di Mugger-Ghaut. La notte calava rapida sui campi di lenticchie, di riso e di cotone, nelle terre basse inondate ogni anno dal fiume; sui giunchi, contro cui si frangeva la corrente nella curva descritta dal fiume, sulla jungla folta, buona solo come pascolo dietro le canne immobili. I pappagalli e i corvi, che erano scesi fra chiacchiere e strida alla loro bevuta serale, avevano ripreso il volo verso terra, per appollaiarsi, incrociandosi coi battaglioni di pipistrelli che uscivano a quell'ora; e nugoli e nugoli di uccelli acquatici si calavano gracchiando e fischiando a ripararsi fra i canneti. Vi erano oche dalla testa gonfia e dal dorso nero, alzàvole, anatre, germani e aironi insieme a chiurli, e qua e là qualche fenicottero. Una gru aiutante chiudeva la retroguardia, volando come se ogni lento colpo d'ala dovesse essere l'ultimo. - Rispettate i vecchi! Bramini del Fiume, rispettate i vecchi! La Gru aiutante volse appena il capo, si spostò un poco in direzione della voce, e si posò impalata sul banco di sabbia sotto il ponte. Allora apparve d'un tratto in tutta la sua ripugnante bruttezza. Vista da dietro, era davvero imponente, alta quasi sei piedi com'era con l'aria di un rispettabilissimo prete calvo. Di fronte era tutt'altra cosa, con la testa e il lungo collo senza una penna, sotto il becco un orribile gozzo di pelle nuda, che serviva da deposito a tutto quello che il becco ricurvo riusciva a rubare. Aveva le gambe lunghe, sottili, rugose, ma le muoveva con delicatezza, e se le osservava con compiacimento, lisciandosi le penne grigiastre della coda, e gettava indietro qualche occhiata di sopra le spalle liscie, irrigidita come se stesse sull'«attenti». Un piccolo Sciacallo rognoso, che abbaiava dalla fame su una lingua di terra, drizzò le orecchie e la coda e sgattaiolò attraverso le secche per raggiungere la Gru aiutante. Era il più miserabile esemplare della sua specie: non che anche il migliore degli sciacalli valga molto, ma quello era particolarmente meschino, mezzo mendicante e mezzo delinquente, lo spazzaturaio dei mucchi di sudiciume del villaggio, ora disperatamente timido, ora sfrontatamente ardito, perennemente affamato e fertile nell'escogitare ripieghi da cui non traeva quasi mai profitto. - Ugh! - disse, scrollandosi melanconicamente quando giunse all'asciutto. - Che la scabbia rossa distrugga tutti i cani di questo villaggio! Mi son guadagnato tre morsi per ogni pulce, e tutto per avere guardato (notate, semplicemente guardato) una vecchia scarpa in una stalla di vacche. Dovrei forse mangiare del fango? - e si grattò sotto l'orecchio sinistro. - Ho inteso, - disse la Gru aiutante con una voce simile a quella di una sega sdentata applicata ad una grossa tavola - ho inteso dire che in quella scarpa c'era un cucciolo appena nato. - Sentire è una cosa e sapere è un'altra - rispose lo Sciacallo, che aveva una profonda conoscenza dei proverbi, raccattati qua e là ascoltando gli uomini riuniti, la sera, intorno ai fuochi del villaggio. - Verissimo. E appunto per sincerarmene, io mi occupai del cucciolo, mentre i cani erano occupati altrove. - Erano MOLTO occupati - osservò lo Sciacallo. - Comunque, converrà che per un certo tempo io non torni al villaggio a caccia d'avanzi. Allora in quella scarpa c'era proprio un cucciolo cieco? - E' qui - rispose la Gru aiutante, guardando da sopra il becco il suo gozzo pieno. - Una cosuccia, ma non disprezzabile al giorno d'oggi che la carità è morta nel mondo. - Ahimè! il mondo è diventato di ferro oggi - lamentò lo Sciacallo. In quell'attimo il suo occhio irrequieto colse un'impercettibile increspatura dell'acqua ed egli continuò spedito: - La vita è dura per tutti noi, e io non dubito che anche il nostro eccellente padrone, l'Orgoglio del Ghaut, l'Invidia del Fiume... - Il bugiardo, l'adulatore e lo Sciacallo sono certamente tutti usciti dallo stesso uovo - commentò la Gru aiutante senza rivolgersi a nessuno in particolare; quando ci si metteva era anche lei una bugiarda della più bell'acqua. - Sì, sì, l'Invidia del Fiume - ripeté lo Sciacallo, alzando la voce. - Anche lui, ne son certo, trova che, da quando è stato costruito il ponte, il buon cibo si fa sempre più scarso. Ma, d'altra parte, per quanto non oserei affermarlo alla sua eccelsa presenza, egli è tanto saggio e virtuoso, quanto poco, ahimè, io lo sono! - Quando lo Sciacallo riconosce di essere grigio, come dev'essere nero lo Sciacallo! - mormorò la Gru aiutante, che non poteva vedere ciò che si avvicinava. - A lui non mancherà mai il cibo, e di conseguenza... Vi fu un leggero strofinamento, come se una barca avesse dato in secca. Lo Sciacallo si voltò rapidamente per trovarsi di fronte (è sempre meglio trovarglisi di fronte) all'essere di cui aveva parlato fino allora. Era un coccodrillo di ventiquattro piedi di lunghezza, corazzato d'una specie di lamiera da caldaia a triplice ribaditura, tutto borchie e punte e creste; le estremità giallastre dei suoi denti superiori sporgevano proprio sulla ben confermata mascella inferiore. Era il Mugger del Mugger-Ghaut, dal naso schiacciato, più vecchio dei più vecchi abitanti del villaggio, che al villaggio aveva dato il nome: il demone del guado, prima che fosse costruito il ponte della ferrovia; assassino, mangiatore d'uomini e feticcio del luogo al tempo stesso. Se ne stava col muso appoggiato sul fondo, mantenendosi in posizione con un movimento quasi invisibile della coda, e lo Sciacallo sapeva bene che un solo colpo di quella coda nell'acqua sarebbe bastato a proiettare il Mugger sulla riva con la rapidità di una locomotiva. - Che felice incontro, Protettore dei Poveri! - biascicò in tono servile, indietreggiando ad ogni parola. - Abbiamo inteso una voce gradevole e ci ha attratti la speranza di un'amabile conversazione. La mia immensa presunzione mi ha indotto, nell'attesa, a parlare di te. Oso sperare che tu non abbia udito nulla. Ora era chiaro che lo Sciacallo aveva parlato proprio per essere ascoltato, poiché ben sapeva che l'adulazione è il mezzo migliore per procurarsi qualcosa da mangiare, e il Mugger sapeva che lo Sciacallo aveva parlato con quello scopo, e lo Sciacallo sapeva che il Mugger sapeva, e il Mugger sapeva che lo Sciacallo sapeva che il Mugger sapeva, e così tutti erano contenti e soddisfatti. Il vecchio coccodrillo avanzò ansimando e grugnendo sulla riva e borbottò: - Rispettate i vecchi e gli infermi! - ed intanto i suoi occhietti scintillavano come carboni ardenti, sotto le grevi palpebre cornee alla sommità della testa triangolare, mentre spingeva avanti il corpo gonfio come una botte fra le zampe storte. Poi si sistemò e lo Sciacallo, per quanto fosse avvezzo al suo modo di fare, non poté fare a meno di trasalire per la centesima volta nel vedere come il Mugger riusciva alla perfezione ad imitare un tronco arenato sulle secche. Si era perfino studiato di mettersi nell'angolo esatto che un tronco naturalmente alla deriva avrebbe formato con l'acqua, tenuto conto della corrente della stagione, del tempo e del luogo. Questo non era evidentemente che frutto dell'abitudine, poiché il Mugger era approdato a riva per suo piacere; ma un coccodrillo non è mai completamente sazio, e se lo Sciacallo si fosse lasciato ingannare da quella somiglianza, non sarebbe vissuto il tempo sufficiente per filosofarci sopra. - Figlio mio, non ho sentito niente - disse il Mugger chiudendo un occhio. - Avevo l'acqua negli orecchi ed ero anche sfinito per la fame. Da quando è stato costruito il ponte della ferrovia, la gente del mio villaggio ha smesso di amarmi; e questo mi spezza il cuore. - Ah, vergogna! - disse lo Sciacallo. - Un così nobile cuore! Ma, secondo me, gli uomini sono tutti gli stessi. - No, vi sono in realtà tra loro delle grandi differenze - rispose con dolcezza il Mugger. - Ve ne sono di magri come pali da barca, e di grassi come giovani sciac... come giovani cani. Ma non voglio parlar male degli uomini senza ragione. Ve ne sono di tutti i generi, e i molti anni d'esperienza m'hanno dimostrato che, l'uno sull'altro, sono tutti buoni. Uomini, donne, bambini: non ho motivo di lamentarmene. E ricordati, figlio mio, che chi disprezza il mondo è disprezzato dal mondo. - L'adulazione è peggiore di un barattolo di latta vuoto nella pancia. Ma quello che abbiamo udito ora è vera sapienza - osservò la Gru aiutante, posando una zampa. - Considerate, però, la loro ingratitudine verso quest'eccellente creatura - cominciò lo Sciacallo con tono dolciastro. - No, no, non ingratitudine! - ribatté il Mugger. - Non pensano agli altri, questo è tutto. Ma io ho osservato, steso al mio posto sotto il guado, che le scale del nuovo ponte sono terribilmente faticose da salire, sia per i vecchi che per i giovani. Per i vecchi, veramente, non vale la pena di prendersela; ma io mi affliggo, mi affliggo davvero... Per i fanciulletti piccoli e grassocci. Penso, però, che fra non molto, quando la novità del ponte avrà perduto interesse, rivedrò le brune gambe nude della mia gente sguazzare audacemente attraverso il guado come prima. E allora il vecchio Mugger sarà di nuovo onorato. - Però io sono certa di aver visto ghirlande di crisantemi staccarsi galleggiando dalle rive del Ghaut, oggi a mezzogiorno - disse la Gru aiutante. Le ghirlande di crisantemi sono in tutta l'India un segno di venerazione. - Errore... errore. E' stata la moglie del venditore di dolci, che va perdendo ogni anno più la vista e non riesce più a distinguere un tronco da me, il Mugger del Ghaut. Ho visto lo sbaglio, quando ha gettato la ghirlanda, perché ero allungato proprio ai piedi del Ghaut, e, se avesse fatto un solo passo più avanti, la piccola differenza gliel'avrei fatta capire io. L'intenzione, però, era buona e noi dobbiamo considerare lo spirito che animava l'offerta. - A che cosa servono le ghirlande dei crisantemi, quando si è andati a finire sull'immondezzaio? - chiese lo Sciacallo, apparentemente occupato a cercarsi le pulci, ma con l'occhio sempre intento al suo Protettore dei Poveri. - E vero, ma finora non hanno ancora cominciato ad ammucchiare le immondizie su cui io dovrò essere gettato. Ho visto cinque volte il fiume allontanarsi dal villaggio e lasciar emergere nuova terra in fondo alla strada. Cinque volte ho visto ricostruire il villaggio lungo le rive: lo vedrò ricostruire ancora altre cinque volte. Io non sono un Gaviale senza princìpi che, come si dice, oggi va a caccia di pesci a Kasi e domani a Prayag; ma il vero e costante guardiano del guado. Non per niente, ragazzo mio, il villaggio porta il mio nome e, come dice il proverbio, «colui che vigila a lungo riceverà infine la sua ricompensa». - Io ho vigilato a lungo... molto a lungo, quasi tutta la mia vita, e la mia ricompensa è consistita soltanto in morsi e in botte - gemette lo Sciacallo. - Oh, oh, oh! - protestò la Gru aiutante. "Lo Sciacallo nacque in agosto le piogge caddero in settembre; uno spaventoso diluvio come questo - esso disse - non l'ho visto mai!" Questa è una caratteristica particolarmente sgradevole della Gru aiutante. Ad intervalli irregolari soffre di attacchi acuti, di smanie o crampi alle gambe, e, quantunque a vederla si comporti più dignitosamente di qualsiasi gru (e le gru sono tutte quanto mai rispettabili), qualche volta si abbandona a selvagge fantasie guerresche sulle sue zampe a trampolo, spiegando a mezzo le ali e sbattendo in qua e in là la testa calva; mentre, per ragioni che essa solo conosce, ha cura di far coincidere i più fieri attacchi con le più volgari insolenze. All'ultima parola della canzone, si rimise sull'«attenti», dieci volte più aiutante di prima. Lo Sciacallo chinò la testa, benché ormai vecchio di tre stagioni; ché non vale la pena di prendersela per un insulto proveniente da un essere che ha un becco lungo un metro e che può vibrarlo come un giavellotto. La Gru aiutante era notoriamente una codarda di prima risma, ma lo Sciacallo lo era ancora di più. - Bisogna aver vissuto per imparare - disse il Mugger - e c'è questo da dire: i piccoli sciacalli, ragazzo mio, sono comunissimi, mentre un Mugger come me non lo si trova di frequente. Purtuttavia, io non mi do delle arie, perché l'orgoglio rovina; ma bisogna pensare che tutto è destino e contro il destino nessuno che nuoti o cammini o corra può mai opporre qualcosa. Io sono soddisfatto del mio Destino. Con la buona fortuna, l'occhio vigile, e l'accortezza di osservare, prima di entrarvi, se un corso d'acqua stagnante offre via d'uscita, si possono fare molte cose. - Una volta mi fu detto che anche il Protettore dei Poveri era caduto in errore - disse lo Sciacallo con aria sorniona. - E' vero; però il mio Destino mi venne in aiuto. Accadde prima ch'io fossi completamente cresciuto, prima delle ultime tre carestie (per la Destra e la Sinistra del Gange, com'erano gonfi i fiumi in quei giorni!). Sì, ero giovane e spensierato, e chi poteva essere più felice di me all'arrivo dell'inondazione? Bastava poco, allora, a rendermi felice. Il villaggio era sommerso, e io risalivo a nuoto il Ghaut, e mi spingevo molto addentro nella terra, fino alle risaie, coperte da un fitto strato di buon fango. Mi ricordo anche di un paio di braccialetti (erano roba di vetro e mi procurarono dei disturbi di digestione) che trovai quella sera. Già: braccialetti di vetro: e, se la memoria non mi tradisce, una scarpa. Avrei dovuto disfarmi di tutt'e due le scarpe, ma avevo fame. Più tardi mi feci più accorto. Sì, così mangiai e feci un pisolino; ma, quando mi disposi a far ritorno al fiume, la piena si era ritirata e io dovetti aprirmi la strada nel fango della via principale. Sì, proprio io. Venne fuori tutta la mia gente, preti e donne e bambini, ed io li guardai con benevolenza. La melma non è un luogo adatto per battersi. Un battelliere propose: «Prendiamo delle asce e ammazziamolo, perché è il Mugger del Guado!». «No», disse il Bramino, «guardate, fa tornare indietro l'inondazione davanti a sé! E' il genio tutelare del villaggio». Allora tutti mi buttarono dei fiori, e uno ebbe la felice idea di spingere una capra in mezzo alla strada. - Com'è buona, com'è squisita la capra! - esclamò lo Sciacallo. - Pelosa... troppo pelosa; e se la si trova nell'acqua, è facile che abbia dentro un uncino a croce. Io, però, accettai la capra e me ne scesi nel Ghaut con tutti gli onori. Più tardi il mio Destino mi fece incontrare il battelliere che aveva proposto di tagliarmi la coda con l'ascia. La sua barca andò ad arenarsi su un vecchio banco che voi non potete ricordare. - Non siamo TUTTI sciacalli, qui - osservò la Gru aiutante. - Non era forse il banco che si formò dove affondarono le barche cariche di pietre l'anno della grande siccità, un lungo banco che sopravvisse a tre inondazioni? - Ce n'erano due - rispose il Mugger; - uno più a monte e uno più a valle. - Già, lo avevo dimenticato: un canale li divideva, che in seguito si prosciugò - disse la Gru aiutante che si vantava di avere buona memoria. - Sul banco inferiore si arenò la barca dell'uomo che mi voleva bene. Dormiva a prua e, svegliato di soprassalto, si buttò nell'acqua fino alla cintola, no, appena fino ai ginocchi, per disincagliare la barca. La barca vuota proseguì e si arenò di nuovo sopra l'altro banco, portata dalla corrente. Io la seguii, perché sapevo che altri uomini sarebbero venuti per riportarla a riva. - E vennero davvero? - chiese lo Sciacallo un po' impressionato. Era un genere di caccia grossa che lo impressionava. - Sì, vennero lì e anche più a valle. Io non mi spinsi più lontano, ma la battuta me ne rese tre in un giorno solo, tutti "manjis" (barcaioli) ben pasciuti, e, tranne l'ultimo caso (allora non facevo molta attenzione) non si udì nemmeno un grido che desse l'allarme agli altri sulla riva. - Ah, che bella caccia! Ma quanta accortezza e quanta intelligenza richiede! - disse lo Sciacallo. - Non accortezza, ragazzo mio, solo riflessione. Un po' di riflessione nella vita è come il sale sul riso, come dicono i barcaioli, ed io ho sempre riflettuto a lungo. Il Gaviale, mio cugino, il mangiatore di pesci, mi spiegava quanto sia difficile per lui inseguire un pesce e come ogni pesce sia diverso dall'altro, e come sia necessario conoscerli tutti sia nell'insieme che uno per uno. Questa è per me vera sapienza; ma d'altra parte mio cugino il Gaviale vive in mezzo alla sua gente. La mia gente non nuota a gruppi, con i musi fuori dall'acqua, come fa Rawa; né torna ogni momento a galla, né si rivolta sul fianco, come Mohoo e il piccolo Chapta; né si riunisce in branchi dopo le piene, come Batcqua e Chilwa. - Tutti buonissimi da mangiare - commentò la Gru aiutante, sbattendo il becco. - Così dice mio cugino, e si dà un gran da fare per cacciarli, ma essi non si arrampicano su per le rive, per sfuggire al suo muso aguzzo. La mia gente si comporta diversamente. Vive sulla terra, nelle case, fra il bestiame. Io devo sapere quello che fa e quello che sta per fare e, attaccando, come suol dirsi, la coda alla proboscide, riesco a mettere insieme tutto l'elefante. C'è un ramo verde con un anello di ferro appeso sopra una porta? Il vecchio Mugger sa che in quella casa è nato un bambino, che scenderà un giorno o l'altro a giocare sul Ghaut. C'è una ragazza da marito? Il vecchio Mugger lo sa, perché vede gli uomini portar su e giù dei regali; e anche lei scenderà al Ghaut a prendere un bagno prima delle nozze... e lui si troverà lì. Il fiume ha mutato il suo corso e ha portato della nuova terra, dove prima non era che sabbia? Il Mugger lo sa. - Ma a che serve sapere tutto questo? - chiese lo Sciacallo. - Anche durante la mia breve vita il fiume ha cambiato il suo corso. - I fiumi indiani modificano quasi continuamente i loro letti e qualche volta li spostano anche di due o tre miglia in una stagione, allagando i campi da una parte e spargendo buon limo dall'altra. - Non c'è nulla di più utile da sapere - ammonì il Mugger - perché la nuova terra provoca nuove contese. Il Mugger lo sa. Oh, se lo sa il Mugger! Appena l'acqua si è ritirata, egli striscia fino alle piccole insenature, dove gli uomini pensano che non si potrebbe nascondere nemmeno un cane, e lì aspetta. Ed ecco arrivare un contadino che parla di piantare qui cetrioli e là meloni, nella nuova terra che il fiume gli ha regalato, e, con i piedi scalzi tasta la fertile melma. Poi ne arriva un altro che pretende di piantare cipolle, carote, canna da zucchero in questo o in quel punto. Si incontrano come barche senza timone, e ognuno di loro rotea minacciosamente gli occhi sotto il grosso turbante azzurro. Il vecchio Mugger vede e sente. Ognuno chiama l'altro «fratello» e va a segnare i confini del nuovo terreno. Il Mugger si affretta a seguirli da un punto all'altro, strisciando sprofondato nella melma. Ed ecco che cominciano i litigi! Prima le ingiurie, poi si strappano i turbanti, poi levano le "lathis" (mazze) e finalmente uno cade riverso nel fango e l'altro si dà alla fuga. Quando ritorna la disputa è liquidata, come dimostra il bambù cerchiato di ferro del soccombente. Eppure, non sono grati al Mugger. No, gridano: «Assassino!» e le famiglie dei contendenti si azzuffano coi bastoni, in venti per parte. La mia gente è gente in gamba: Jats delle montagne, Malwais del Bet. Non si battono per ischerzo, e, quando la rissa è finita, il vecchio Mugger aspetta lontano giù al fiume, fuori di vista del villaggio, dietro i cespi di "kikar". Allora scendono, i miei Jats dalle larghe spalle, otto o nove insieme sotto le stelle, portando il morto su di una barella. Sono tutti vecchi dalle barbe grigie e dalle voci profonde come la mia. Accendono un focherello - ah, come lo conosco bene quel fuoco! - e succhiano tabacco, e disposti in cerchio piegano le teste tutte insieme o da un lato o verso il morto sulla riva. Dicono che la Legge Inglese verrà con una corda per questa faccenda, e che la famiglia di quell'uomo sarà disonorata, perché egli dovrà essere impiccato nel grande cortile della prigione. Allora gli amici del morto dicono: «Lasciate che sia impiccato!» e la disputa ricomincia, una, due, venti volte nel corso della notte. Finalmente uno dice: «La lotta fu una lotta leale. Accettiamo il prezzo del sangue, un po' di più di quanto offre l'uccisore, e non parliamone più». Allora si mettono a contrattare sul pezzo del sangue, perché il morto era un uomo robusto che lascia parecchi figlioli. E così, prima dell'"amratvela" (l'alba) gli danno un po' di fuoco, come vuole l'usanza, e il morto arriva a me e non ha più nulla da dire. Ah, ragazzi! Il Mugger sa... il Mugger sa... e i miei Jats del Malwais sono brava gente! - Sono troppi avari, troppo stretti di mano per il mio gozzo - gracchiò la Gru aiutante. - Non c'è pericolo che sciupino, come suol dirsi, il lucido per il corno della vacca; eppoi, ancora, chi trova da spigolare in un campo dov'è passato un Malwai? - Ah, io spigolo... loro - disse il Mugger. - A Calcutta, però, nel sud, nei tempi andati - proseguì la Gru aiutante - tutto veniva gettato nella strada e noi sceglievamo quel che preferivamo. Bei tempi quelli! Oggi, invece, tengono le strade pulite come il guscio d'un uovo, e la mia gente deve volarsene lontano. Essere puliti è una cosa, ma spolverare, spazzare e innaffiare sette volte al giorno è una fatica che stancherebbe anche gli dèi... - Uno sciacallo del mezzogiorno aveva sentito da suo fratello, che me lo raccontò, che a Calcutta, nel sud, gli sciacalli erano grossi come le lontre durante la stagione delle piogge - disse lo Sciacallo, che a quel solo pensiero si sentiva venire l'acquolina in bocca. - Oh, ma laggiù ci sono i visi pallidi, gli Inglesi, e portano dei cani da qualche posto giù nel fiume, cani grandi e grossi, per far sì che gli sciacalli si mantengano magri - disse la Gru aiutante. - Ma allora hanno anche quelli il cuore duro come la gente di qui? Avrei dovuto immaginarmelo. Né cielo, né terra, né acqua hanno pietà dello Sciacallo. L'anno scorso verso le Piogge, ho visto le tende di un viso pallido e vi ho preso anzi una briglia gialla nuova per mangiarla; ma i visi pallidi non sanno conciare le pelli nel modo giusto. Mi ha fatto venir un gran mal di pancia. - Sempre meglio di quello che è capitato a me - riprese la Gru aiutante. - Quando ero nella mia terza stagione, uccello giovane e ardito, discesi al fiume là dove approdano le grandi barche. Le barche degli Inglesi sono tre volte più grandi di questo villaggio. - E stato fino a Delhi e dice che tutta la gente di laggiù cammina sulla testa - borbottò lo Sciacallo. Il Mugger aprì l'occhio sinistro e guardò fisso la Gru aiutante. - E' vero - insistette il grosso uccello - un bugiardo mente solo quando spera di essere creduto. Nessuno che non abbia visto quelle barche crederebbe a quello che dico. - Così è più ragionevole - disse il Mugger. - E allora? - Dall'interno di quelle barche stavano tirando fuori dei grossi pezzi di roba bianca, che in poco tempo si trasformavano in acqua. Parecchi si spezzavano e cadevano sulla riva, il resto veniva rapidamente sistemato in una cassa con grossi muri. Un barcaiolo, ridendo, ne prese un pezzo non più grosso di un cagnolino e me lo tirò. Io e tutti quelli della mia razza inghiottiamo senza badarci, e io inghiottii quella roba, com'è nostro costume. Subito mi sentii attanagliato da un freddo terribile, che, partendo dal gozzo, scese fino alla punta dei piedi e mi tolse persino la voce, mentre i barcaioli ridevano alle mie spalle. Non ho mai sentito un freddo simile! Saltellai per il male e lo stupore, fino a quando mi riuscì di riprender fiato; e allora ricominciai a ballare, imprecando contro la falsità di questo mondo e i barcaioli risero talmente da rotolarsi per terra. La cosa più straordinaria in tutta la faccenda, a parte il freddo terribile, fu che, quando ebbi finito di lamentarmi, nel mio gozzo non era rimasto più niente! La Gru aiutante aveva fatto del suo meglio per descrivere quello che aveva provato per aver inghiottito un blocco di sette libbre di ghiaccio del Lago Wenham, buttato da una nave portaghiaccio americana, quando a Calcutta non era ancora stata aperta una fabbrica di ghiaccio artificiale; ma, dato che essa non sapeva che cosa fosse il ghiaccio, e il Mugger e lo Sciacallo lo sapevano ancora meno, il racconto cadde nell'indifferenza generale. - Tutto... - disse il Mugger, chiudendo nuovamente l'occhio sinistro - tutto può uscire da una barca grande tre volte il Mugger Ghaut. Il mio villaggio non è tanto piccolo. S'intese un fischio sul ponte, e il diretto di Delhi lo attraversò con tutte le vetture illuminate, fedelmente inseguite dalle loro ombre lungo il fiume. Il rumore si perdette di nuovo nel buio: ma il Mugger e lo Sciacallo vi avevano fatto talmente l'abitudine che non volsero nemmeno la testa. - E questa è forse una cosa meno meravigliosa di una barca grande tre volte il Mugger Ghaut? - chiese l'uccello guardando in su. - Io l'ho visto costruire, ragazzo mio. Ho visto elevarsi pietra su pietra i suoi piloni, e, quando gli uomini cadevano (per la maggior parte avevano il piede straordinariamente sicuro, ma di quando in quando cadevano) io ero pronto. Dopo che fu costruito il primo pilone, non si davano più pensiero di scandagliare la corrente per cercare i corpi dei caduti e per bruciarli. Anche in quelle occasioni ho risparmiato loro molte fatiche. Nella costruzione del ponte non v'è nulla di straordinario - concluse il Mugger. - Ma quella cosa che ci corre sopra, trascinando i carri coperti, quella è strana davvero! - ripeté la Gru aiutante. - Si tratta indubbiamente di una nuova specie di buoi. Un giorno o l'altro perderà anche quella l'equilibrio e cascherà anche lei, come hanno fatto gli uomini. Il vecchio Mugger, allora, sarà pronto. Lo Sciacallo e l'uccello si scambiarono un'occhiata. Se c'era una cosa di cui fossero sicuri, era che quella macchina poteva essere tutto nel vasto mondo all'infuori di un bue. Lo Sciacallo l'aveva osservata ripetutamente da dietro le siepi di aloe lungo la linea, e la Gru aiutante conosceva le locomotive fin da quando avevano fatta la loro prima comparsa in India. Il Mugger, invece, aveva guardato la cosa soltanto dal basso e la cupola di rame gli era sembrata simile alla gobba di un bisonte. - Ma sì, una nuova specie di bue - confermò con sicurezza il Mugger, come se volesse convincere innanzi tutto se stesso. - Certamente si tratta di un bue - confermò lo Sciacallo. - E potrebbe magari essere... - riprese il Mugger seccato. - Ma certo... ma certo - disse lo Sciacallo, senza dar tempo all'altro di finire. - Che cosa? - chiese il Mugger incollerito, perché intuiva che gli altri ne sapevano più di lui. - Che cosa potrebbe essere? Non avevo ancora finito la frase. Voi avete detto che è un bue. - E' tutto quello che piace al Protettore dei Poveri. Io sono il suo umile schiavo, non lo schiavo della cosa che passa sul ponte. - Qualunque cosa sia, è opera dei visi pallidi, - intervenne la Gru aiutante - e per parte mia, non mi stenderei in un punto così vicino ad essa come su questo banco di sabbia. - Tu non conosci gli Inglesi come li conosco io - osservò il Mugger. - Quando fu costruito il ponte, qui c'era un viso pallido e la sera prendeva una barca, stropicciava i piedi sulle assi del fondo e sussurrava: «E' qui? E' là? Portatemi il fucile». Lo sentivo ancor prima di vederlo, raccoglievo ogni minimo rumore che faceva agitandosi, sbuffando, maneggiando il fucile su e giù lungo il fiume. Ogni volta che mi riusciva di agguantare uno dei suoi operai, facendogli così risparmiare la grossa spesa della legna per il rogo funebre, ecco che scendeva giù al Ghaut, e urlava forte che voleva darmi la caccia e liberare il fiume della mia presenza... Uccidere me, il Mugger del Mugger-Ghaut! ME! Ragazzi, ho nuotato sotto il fondo della sua barca per ore e ore, e l'ho sentito sparare ai tronchi; e quando ero certo che ormai era stanco, salivo a galla accanto a lui e gli sbattevo le mascelle in faccia. Quando il ponte fu finito, se ne andò. Tutti gli Inglesi cacciano in questo modo, tranne quando essi stessi vengono cacciati. - E chi dà la caccia ai visi pallidi? - abbaiò lo Sciacallo eccitatissimo. - Nessuno adesso, ma ai miei tempi li ho cacciati. - Ricordo anch'io qualcosa di quella caccia. Ero giovane allora - soggiunse la Gru aiutante sbattendo il becco in modo molto significativo. - Qui io mi ero ben sistemato. Ricordo che il mio villaggio era stato ricostruito per la terza volta quando mio cugino il Gaviale mi portò la notizia che c'erano acque ricche di preda a monte di Benares. Sulle prime non volevo andarvi per il fatto che mio cugino, che è un mangiatore di pesci, non distingue sempre il buono dal cattivo; ma poi sentii i discorsi della mia gente alla sera, e mi convinsi che il Gaviale aveva detto la verità. - Che cosa raccontavano? - chiese lo Sciacallo. - Abbastanza per indurre me, il Mugger del Mugger-Ghaut a lasciare l'acqua e ad incamminarmi a piedi. Partii di notte, servendomi dei più piccoli torrentelli che potevano ospitarmi: ma eravamo al principio della stagione calda e tutti i corsi d'acqua erano bassi. Attraversai strade polverose; camminai nelle praterie; mi arrampicai su per le colline al chiaro di luna. Ho persino scalato delle rocce: pensate, figli miei! Ho attraversato la coda del Sirhind, completamente secca, prima di raggiungere la rete dei fiumiciattoli che sboccano nel Gange. Ero ad un mese di viaggio dalla mia gente e dal fiume che conoscevo. Una cosa meravigliosa! - E che cosa mangiavi strada facendo? - chiese lo Sciacallo, che aveva l'anima nella sua piccola pancia e non si sentiva affatto impressionato dai viaggi in terra ferma del Mugger. - Quello che capitava... "cugino" - disse il Mugger lentamente, pesando ogni parola. Ora, voi non chiamereste mai, in India, una persona col nome di «cugino» se non riterreste di stabilire con lei una sorta di parentela, e - dato che soltanto nelle vecchie fiabe il Mugger sposa sempre uno Sciacallo - lo Sciacallo comprese a volo per qual ragione era stato subitamente ammesso nell'onorata famiglia del Mugger. Se fossero stati loro due soli, non avrebbe dato importanza alla cosa, ma gli occhi della Gru aiutante brillarono di gioia maligna a quell'insinuazione grossolana. - Certo, Padre mio, avrei dovuto saperlo - disse lo Sciacallo. Un mugger non gradisce essere chiamato padre di sciacalli, e il Mugger del Mugger-Ghaut lo disse chiaramente, e aggiunse parecchie altre cose che qui è inutile ripetere. - Il Protettore dei Poveri ha ricordato la parentela che esiste fra noi. Ma come posso ricordarne il grado preciso? Oltre tutto, mangiamo lo stesso cibo! Lo ha detto lui! - fu la risposta dello Sciacallo. Questo non fece che peggiorare la situazione, perché lo Sciacallo insinuava in tal modo che nel suo viaggio per terra il Mugger aveva mangiato ogni giorno cibo fresco, invece di conservarlo finché fosse al punto giusto per essere mangiato, come fa, quando può, ogni mugger che si rispetti e la maggior parte delle belve. Infatti, lungo il fiume, uno dei peggiori insulti è quello di «mangiatore di carne fresca». E' all'incirca come dare ad un uomo del cannibale. - Quel cibo fu mangiato trenta stagioni fa - disse la Gru aiutante senza scomporsi. - Anche se continuassimo a parlarne per altre trenta stagioni, non tornerà mai più. Raccontaci piuttosto quello che ti accadde quando arrivasti alle buone acque, dopo il tuo straordinario viaggio per terra. A dare ascolto ad ogni sciacallo che abbaia - dice il proverbio - si fermerebbe la vita della città. Il Mugger gli fu grato di questa interruzione, poiché continuò con slancio: - Per la Destra e la Sinistra del Gange! Al mio arrivo vidi delle acque come non ne avevo viste mai! - Erano meglio della grande piena dell'ultima stagione? - chiese lo Sciacallo. - Molto meglio! Quella fu la piena che ricorre ogni cinque anni, quattro stranieri annegati, qualche pollo e una carogna di vitello nell'acqua fangosa percorsa da vortici e mulinelli. Ma nella stagione a cui mi riferisco, il fiume era basso, lento, calmo, eppure, proprio come mi aveva detto il Gaviale, gli Inglesi morti venivano giù sul filo della corrente, l'uno a ridosso dell'altro. Fu in quella stagione che io raggiunsi il mio completo sviluppo. Da Agra, per Etawhah e le grandi acque di Allahabad... - Oh, il gorgo che si forma sotto le mura del forte di Allahabad! - disse la Gru aiutante. - Arrivavano come folaghe alle canne, e giravano tutti intorno così! - riprese la sua orribile danza, mentre lo Sciacallo la guardava invidioso. Esso naturalmente non poteva ricordare lo spaventoso anno della Rivolta (La rivolta dei Cipays, truppe indiane al soldo dell'Inghilterra, che si ammutinarono nel 1856 e fecero strage degli Inglesi. Nota del traduttore) che stavano rievocando. Il Mugger continuò: - Sì, ad Allahabad uno se ne stava quieto nell'acqua ferma, e ne lasciava passare venti prima di agguantarne uno; e oltre tutto, gli Inglesi non erano carichi di gioielli, di anelli da naso e di amuleti, come sono oggigiorno le donne del mio villaggio. Ad appassionarsi troppo per gli ornamenti, il proverbio dice che si arrischia di finire con una corda al collo. A quell'epoca tutti i mugger di tutti i fiumi ingrassarono, ma il mio Destino volle che io ingrassassi più di tutti. Correva la voce che gli Inglesi fossero ricacciati dentro ai fiumi e - per la Destra e la Sinistra del Gange - constatammo che era proprio vero. Più mi spingevo verso il sud, più constatavo che era vero: e discesi la corrente fin oltre Monghyr e le tombe che si specchiano nel fiume. - Conosco la località - disse la Gru aiutante; - da quei giorni Monghyr è una città morta. Ora non vi abita che pochissima gente. - In seguito risalii il fiume pigramente e senza fretta, e poco a monte di Monghyr ecco arrivare una barca piena di visi pallidi, tutti vivi! Ricordo che erano donne, giacenti sotto un panno steso su dei bastoni, e piangevano forte. Neppure un fucile sparava in quei giorni contro di noi, guardiani dei guadi: tutti i fucili erano occupati altrove. Li sentivamo sparare giorno e notte entro terra, vicini e lontani secondo il soffiare del vento. Mi rizzai fuori dall'acqua davanti alla barca, perché non avevo mai visto visi pallidi viventi, pur conoscendoli bene in altro modo. Un bambino bianco nudo era inginocchiato su un lato della barca e, sporgendosi in fuori, cercava di immergere le mani nel fiume. E' una cosa graziosissima vedere come piace ai bambini l'acqua che corre. Quel giorno avevo mangiato, ma mi era rimasto ancora un angolino da riempire. Così, più per gioco che per fame, mi accostai alle manine del bimbo. Facevano una macchia così chiara che non guardai neppure quando strinsi le mascelle; ma erano così piccine che, pur avendo serrata bene la bocca (ne ero certo), il bambino riuscì a ritirarle rapidamente illese. Dovevano essere passate fra dente e dente quelle manine bianche! Avrei dovuto azzannarlo vicino ai gomiti, ma, come dicevo, mi ero sollevato sull'acqua solo per svago e per il desiderio di vedere cose nuove. Nella barca si misero tutte ad urlare, una dopo l'altra, e io mi risollevai subito per osservarle bene. La barca era troppo piena per rovesciarla, e non erano che donne, ma ha ragione il proverbio quando dice che fidarsi di una donna è come camminare sull'erba di uno stagno: per la Destra e la Sinistra del Gange, è verità sacrosanta! - Una volta una donna mi diede un po' di pelle secca di pesce - interloquì lo Sciacallo. - Io avevo sperato di acchiappare il suo bambino, ma la carne di cavallo è, come suol dirsi, meglio del calcio del cavallo. Che cosa fece la tua donna, allora? - Mi sparò addosso con una sorta di corto fucile che non avevo mai visto prima e che non vidi più dopo: cinque colpi uno dopo l'altro - (il Mugger doveva essersi trovato di fronte ad una vecchia pistola); - ed io rimasi a bocca aperta a guardare con la testa in mezzo al fumo. Cinque volte, così rapidamente come io muovo la mia coda, così! Lo Sciacallo, che era andato prendendo sempre maggior interesse al racconto, ebbe appena tempo di spiccare un salto indietro, mentre la grossa coda gli passava vicina tagliando l'aria come una falce. - Non prima del quinto colpo - disse il Mugger, come non si fosse mai sognato di ammazzare uno dei suoi ascoltatori - non mi immersi prima del quinto colpo, e risalii in tempo, per sentire un barcaiolo dire a tutte quelle donne bianche ch'io ero certamente morto. Un proiettile mi era andato a finire sotto una piastra del collo e non so se c'è ancora, perché non posso voltar la testa. Guarda tu stesso, ragazzo: così avrai la prova che il mio racconto è vero. - Io? - chiese lo Sciacallo. - Un mangiatore di vecchie scarpe, un rosicchiatore di ossa, potrebbe osare di metter in dubbio la parola dell'Invidia del Fiume? Possa la mia coda essere strappata da cuccioli ciechi, se l'ombra di un simile pensiero ha attraversato la mia umile mente. Il Protettore dei Poveri si è degnato di far sapere a me, suo schiavo, che una volta nella sua vita è stato ferito da una donna. Questo basta e io narrerò il fatto a tutti i miei figli, senza chiedere prove. - La cortesia esagerata qualche volta è peggio di un'insolente villania, perché come dice il proverbio, si può anche soffocare l'ospite col formaggio. Io NON desidero che nessuno dei tuoi figli sappia che il Mugger del Mugger-Ghaut si prese la sua unica ferita da una donna. Avranno ben altro a cui pensare, se dovranno procacciarsi il cibo così stentatamente come fa il loro padre! - Ho dimenticato tutto! Non se n'è mai parlato! Non c'è mai stata una donna bianca! Non c'era nessuna barca! Non è mai accaduto niente! Lo Sciacallo agitò la coda per dimostrare che tutto era cancellato dalla sua memoria e si mise a sedere con fare indifferente. - In realtà, accaddero moltissime cose - disse il Mugger, battuto per una seconda volta in quella sera. (Nessuno dei due, comunque, serbò rancore all'altro. Mangiare ed essere mangiato è la legge che vige sul fiume, e lo Sciacallo correva a prendersi la sua parte di bottino, quando il Mugger aveva finito il suo pasto). - Lasciai la barca e risalii la corrente e, quando giunsi ad Arrah e ai bracci d'acqua morti dietro di essa, cadaveri di Inglesi non ce n'erano più. Il fiume per un tratto era vuoto. Poi ne arrivarono un paio, vestiti di rosso, non Inglesi, ma tutti di una razza, Indù e Purbeehs; poi cinque o sei in fila, e infine da Arrah verso il nord, oltre Agra, pareva che interi villaggi fossero finiti nell'acqua. Arrivarono dalle piccole insenature uno dopo l'altro, come i tronchi che scendono le correnti dopo le Piogge. Quando il fiume cresceva, si sollevavano anch'essi a mucchi dai bassifondi su cui si erano posati, e la corrente li portava seco, attraverso i campi e dentro la jungla, trascinandoli per i lunghi capelli. Ogni notte, però, andando verso il nord, sentivo i cannoni e di giorno il passo di uomini calzati che attraversano i guadi, e quel rumore speciale, prodotto dalle ruote dei carri pesanti sulla sabbia sott'acqua; e ogni piccola onda portava altri morti. Alla fine ebbi paura anch'io e mi dissi: «Se queste cose accadono agli uomini, come farà a salvarsi il Mugger del Mugger- Ghaut?». Vi erano anche barche che venivano dietro di me senza vele, bruciando di continuo, come bruciano talvolta le barche del cotone, ma senza mai affondare. - Ah! - disse la Gru aiutante. - Barche di questo genere arrivano a Calcutta dal sud. Sono grandi e nere, battono l'acqua dietro di loro con la coda e... - Sono tre volte più grosse del mio villaggio. Le MIE barche erano basse e bianche, battevano l'acqua sui due lati e non erano più grandi delle barche di chi dice la verità. Ne ebbi molta paura, per cui lasciai l'acqua e ritornai al mio fiume, nascondendomi di giorno e camminando di notte, quando non riuscivo a sistemarmi in qualche fiumiciattolo. Ritornai al mio villaggio, ma credevo di ritrovarvi nessuno della mia gente. Invece, tutti erano intenti ad arare, a seminare, a raccogliere, e se ne andavano e venivano in tutta calma per i campi con il loro bestiame. - E nel fiume c'era ancora del buon cibo? - chiese lo Sciacallo. - Più di quanto potessi desiderare. Perfino io, che non mangio fango, perfino io ero stanco e, per quanto ricordo, un po' impressionato di quel continuo scendere di esseri silenziosi. Nel villaggio avevo sentito dire dalla mia gente che tutti gli Inglesi erano morti; ma quelli che la corrente portava con la faccia in giù, non erano Inglesi, come constatò anche la mia gente. E la mia gente allora concluse che la miglior cosa era non aprir bocca, pagare le tasse e arare la terra. Dopo molto tempo il fiume si ripulì, e quelli che scendevano ancora erano evidentemente annegati nella piena; e, per quanto non fosse più così facile trovare il cibo, ne fui sinceramente soddisfatto. Qualche piccola uccisione qua e là non nuoce, ma qualche volta, come dice il proverbio, ne ha a sazietà anche il Mugger. - Meraviglioso! Veramente meraviglioso! - esclamò lo Sciacallo. - Io mi sento ingrassato soltanto a sentir parlare di scorpacciate così copiose. E dopo di ciò, è lecito chiedere che cosa fece il Protettore dei Poveri? - Dissi a me stesso (e per la Destra e la Sinistra del Gange, ho serrato fermamente le mascelle nel fare quel voto), dissi a me stesso che non volevo più andare in cerca di avventure. Così ho ripreso a vivere presso il Ghaut, vicino alla mia gente, e ho vegliato su di lei un anno dopo l'altro; ed essa mi ha amato tanto da gettarmi ghirlande di crisantemi ogni volta che mi vedeva metter fuori la testa. Sì, il destino mi è stato favorevole, e il fiume è così generoso da tollerare la mia povera e inferma presenza; soltanto... - Nessuno è mai pienamente felice dal becco alla coda - disse la Gru aiutante con comprensione. - Che cosa manca ancora al Mugger-Ghaut? - Quel piccolo bambino bianco che non sono riuscito ad azzannare - sospirò il Mugger. - Era molto piccolo, ma non l'ho dimenticato. Ormai sono vecchio, eppure, prima di morire, mi piacerebbe provare ancora qualcosa di nuovo. E vero che quella è gente dai piedi pesanti, rumorosa, spensierata e che il divertimento sarebbe modesto, ma mi ricordo i vecchi tempi vicino a Benares e, se il bambino è vivo, certamente se li ricorderà anche lui. Può darsi che vada su e giù lungo le rive di qualche fiume, vantandosi di aver infilato una volta le sue manine fra i denti del Mugger del Mugger-Ghaut, e di essere ancora vivo per raccontarlo. Il mio Destino è stato molto benevolo, ma il pensiero di quel piccolo bambino bianco a prua di quella barca ritorna di quando in quando come un incubo nei miei sogni. - Sbadigliò e chiuse le mascelle. - E ora voglio riposarmi e riflettere. State zitti, figli miei, e rispettate i vecchi. Si voltò goffamente e strisciò all'estremità del banco di sabbia, mentre lo Sciacallo si tirava indietro insieme alla Gru aiutante al riparo di un albero arenato all'altra estremità vicino al ponte della ferrovia. - Ecco una vita piacevole e ben spesa - commentò lo Sciacallo sogghignando e guardando con aria interrogativa l'uccello che lo dominava dall'alto. - E mai una volta, bada bene, si è mai dato la pena di indicarmi dov'era rimasto qualche boccone lungo le rive. Mentre io, a lui, avrò segnalato un centinaio di volte delle cose buone trasportate dalla corrente. Com'è vero il proverbio che dice: «Tutti sono pronti a dimenticare lo Sciacallo e il barbiere, quando hanno avuto le informazioni desiderate!». Adesso si appresta a dormire. "Arrh!" - Come può uno Sciacallo andare a caccia con un Mugger? - chiese fredda la Gru aiutante. - Ladrone e ladruncolo: ci vuol poco a immaginare a quale dei due toccherà il bottino. Lo Sciacallo si volse mugolando con impazienza e si preparava ad allungarsi sotto il tronco d'albero, quando d'un tratto si acquattò impaurito, guardando attraverso i rami semimmersi il ponte situato quasi sopra la sua testa. - Che c'è di nuovo? - chiese la Gru aiutante, aprendo le ali con inquietudine. - Aspetta che vediamo. Il vento soffia da noi verso di loro, ma quelli non si occupano di noi... quei due uomini. - Uomini, dici? Il mio ufficio mi protegge. Tutta l'India sa ch'io sono sacra. - Alla Gru aiutante, per la sua funzione di spazzino di prima classe, è consentito andare dove le piace; ragione per cui non si mosse affatto. - Io non merito nulla più di un colpo di scarpa vecchia - disse lo Sciacallo, tendendo di nuovo l'orecchio. - Senti quel passo! - continuò. - Quelle non sono pedate di contadini, ma piedi calzati di un viso pallido. Ascolta ancora! Il ferro batte sul ferro, lassù! E' un fucile! Amico mio, quegli sciocchi Inglesi dal passo pesante hanno intenzione di dire una parolina al Mugger. - Mettilo in guardia, allora. Era chiamato Protettore dei Poveri da qualcuno che aveva tutta l'aria di uno sciacallo affamato, pochi minuti fa. - Lascia che mio cugino pensi per conto suo alla sua pelle. Mi ha detto un mucchio di volte che dai visi pallidi non v'è nulla da temere... E quelli devono essere visi pallidi. Nessun abitante del Mugger-Ghaut oserebbe seguirlo. Vedi, l'ho detto ch'era un fucile! Ora, con un po' di fortuna, avremmo da sfamarci prima che faccia giorno. Quand'è fuor d'acqua non ci sente molto bene, e... questa volta non è una donna! Una canna lucente brillò un attimo nel chiaro di luna sulle traverse del ponte. Il Mugger era allungato sul banco di sabbia, immobile come la sua ombra, con le zampe anteriori un poco aperte e la testa appoggiata fra esse e russava come... un mugger. Una voce sul ponte sussurrò: - E' un colpo magnifico, quasi sotto a piombo, ma non è possibile mancarlo. Meglio tirargli dietro il collo. Caspita! Che bestiaccia. Vedrai che la gente del paese si infurierà, se lo ammazzeremo, perché lo considera un po' il "deota" (dio) di questi paraggi. - Non preoccuparti - rispose un'altra voce; - ha azzannato una quindicina dei miei migliori "coolies" mentre stavamo costruendo il ponte, e adesso è ora di farla finita. Gli ho dato la caccia in barca per settimane intere. Sta' pronto col Martini, appena gli avrò scaricato addosso queste due canne. - Attento al rinculo, allora. Un "four-bore" ( Grosso fucile da caccia a pallottole esplosive. Nota del traduttore) a doppia canna non è uno scherzo. - Lasciamo che ci pensi lui. Sparo! Echeggiò un'esplosione simile a quella di un cannoncino (i più grossi fucili per la caccia all'elefante non sono molto differenti da un pezzo di artiglieria) e vi fu una doppia vampata di fiamma, seguita dal colpo secco del Martini, il cui lungo proiettile passa da parte a parte anche le squame del coccodrillo. Ma le pallottole esplosive compirono l'opera. Una di esse raggiunse il Mugger proprio dietro al collo, un palmo a sinistra dalla spina dorsale, mentre un'altra penetrò più in basso, al principio della coda. In novanta casi su cento un coccodrillo colpito a morte riesce a trascinarsi fino all'acqua profonda e scomparire, ma il Mugger del Mugger-Ghaut era stato spezzato letteralmente in tre pezzi. Mosse appena la testa prima di spirare e rimase lì piatto come lo Sciacallo. - Tuoni e fulmini! Fulmini e tuoni! - disse la miserabile bestiola. - Che sia finalmente precipitata giù dal ponte quella cosa che trascina i carri coperti? - Non è stato altro che un fucile - disse la Gru aiutante, pur tremando fin nelle penne della coda. - Nient'altro che un fucile. E morto certamente. Ecco i visi pallidi che arrivano. I due Inglesi erano corsi giù dal ponte ed avevano attraversato il banco di sabbia, fermandosi ad ammirare la lunghezza del Mugger. Poi un indigeno con l'ascia tagliò l'enorme testa, e quattro uomini la trascinarono attraverso il bassofondo. - L'ultima volta che ebbi la mano in bocca a un Mugger - disse uno degli Inglesi abbassandosi (era quello che aveva costruito il ponte) - fu quando avevo circa cinque anni, e scendevo il fiume in barca a Monghyr. Ero un bambino sfuggito alla Rivolta, come si diceva allora. La mia povera mamma era pure nella barca, e parecchie volte mi raccontò di aver sparato con una vecchia pistola alla testa della bestiaccia. - Bene, hai preso certo la rivincita sul capo della tribù, anche se il fucile ti ha fatto sanguinare il naso. Su, barcaioli, tirate quella testa sulla riva e la faremo bollire per averne il cranio. La pelle è troppo sciupata per conservarla. E adesso andiamo a dormire. Valeva, però, la pena di vegliare tutta la notte, non ti sembra? E' proprio curioso: lo Sciacallo e la Gru aiutante fecero proprio la stessa osservazione, tre minuti dopo che gli uomini se ne furono andati. La canzone dell'onda. Una volta un'onda arrivò a riva accesa dal tramonto dorato e lambì la mano di una fanciulla che ritornava attraverso il guado. "Piede delicato e seno gentile, passa qui lieta e fermati. «Fanciulla, aspetta» disse l'onda «aspetta un momento, perché io sono la Morte»." «Dove il mio amato mi chiama io vado - vergogna sarebbe trattarlo freddamente. C'era un pesce che nuotava intorno a me, rovesciandosi audacemente». "Piede delicato e tenero cuore, aspetta il carro carico che ti traghetti. «Aspetta, oh aspetta» disse l'onda; «fanciulla, aspetta perché io sono la Morte»." «Quando il mio amato mi chiama, io mi affretto - Signora Disdegnosa non si è mai sposata!». Onda, onda, increspati intorno alla sua cintura, chiara fai turbinare la corrente. "Folle cuore e mano fedele, piccolo piede che non ha toccato terra, l'onda fuggi lontano, l'onda, l'onda che corre rossa di sangue!" 5. L'ANKUS DEL RE. Questi sono i Quattro che non sono mai contenti, che non sono mai sazi da quando sono cominciate le Rugiade: la bocca di Jacala, il gozzo del Nibbio, le mani della Scimmia e gli occhi dell'Uomo. Proverbio della Jungla. Kaa, il grosso Pitone di Roccia, aveva cambiato la pelle forse per la duecentesima volta dalla sua nascita; e Mowgli, che non aveva mai dimenticato di essergli debitore della vita per ciò che aveva fatto una certa notte alle Grotte Fredde - come probabilmente ricorderete anche voi - andò a fargli gli auguri. Il cambio della pelle rende sempre il serpente avvilito e di cattivo umore, fino a quando la pelle nuova non comincia a brillare e a diventar bella. Kaa non si burlava più di Mowgli, ma lo accettava, come tutto il Popolo della Jungla, come il Padrone della Jungla e gli recava tutte le notizie che potevano giungere all'orecchio di un pitone delle sue dimensioni. Quello che Kaa non sapeva della Jungla Media, come vien chiamata la vita che corre a fior di terra o sotterra, la vita del masso, della tana e del ceppo, avrebbe potuto essere scritto sulla più piccola delle sue squame. Quel pomeriggio Mowgli se ne stava seduto nel cerchio formato dalle grandi spire di Kaa, giocherellando con la vecchia pelle lacera e afflosciata che giaceva contorta e annodata in mezzo alle rocce così come Kaa l'aveva lasciata. Kaa si era raggomitolato molto teneramente sotto le larghe spalle nude di Mowgli, per cui il ragazzo riposava in realtà in una poltrona vivente. - E' perfetta fino alle squame degli occhi - osservò Mowgli sottovoce, giocando con la vecchia pelle. - Strano potersi vedere, così ai piedi la pelle della propria testa! - Ah! ma io non ho piedi - disse Kaa; - e siccome questo accade a tutti quelli della mia razza, non ci trovo nulla di strano. Tu non ti senti mai la pelle vecchia e dura? - Allora io mi immergo nell'acqua, Testa Piatta; però è vero che durante i grandi calori mi sarebbe piaciuto potermi toglier di dosso la pelle senza farmi male e correre così alleggerito. - Io mi lavo e mi tolgo anche la pelle. Che te ne sembra della mia nuova veste? Mowgli fece scorrere la mano sulla scacchiera diagonale del dorso enorme. - La Tartaruga ha il dorso più duro, ma i suoi colori non sono così vivaci - disse con aria sentenziosa. - Il Ranocchio, quello che porta il mio nome, è più vivace, ma non così duro. Il tuo vestito è magnifico, tutto screziato come il calice di un giglio. - Ha bisogno di acqua. Una pelle nuova non prende mai il suo pieno splendore se non dopo il primo bagno. Andiamo a fare un tuffo. - Ti porterò io - disse Mowgli; e si chinò ridendo per sollevare il grande capo di Kaa al centro, proprio là dove era più grosso. Era come se un uomo avesse tentato di alzare una tubatura d'acqua di due piedi di diametro; Kaa rimase immobile, sbuffando tranquillo e divertito. Poi cominciò il solito gioco serale: il ragazzo, nel pieno vigore della sua forza, e il pitone, nella sua nuova pelle sontuosa, si misuravano in una gara di lotta: una prova di destrezza e di vigore. Naturalmente, Kaa avrebbe potuto stritolare una dozzina di Mowgli se non si fosse controllato; ma si batteva con cautela, senza impiegare neppure la decima parte della sua forza. Sin da quando Mowgli era divenuto abbastanza robusto per incassare qualche colpo un po' rude, Kaa gli aveva insegnato questo gioco che gli rendeva agili le membra come nessun altro. Talvolta Mowgli era avvolto quasi fino al collo fra le spire di Kaa, e lottava per liberarsi un braccio in modo da afferrare l'avversario alla gola. Allora Kaa allentava di colpo la stretta e Mowgli, movendo rapidi tutt'e due i piedi, faceva ogni sforzo per immobilizzare l'enorme coda che si snodava all'indietro, alla ricerca di un appiglio su un tronco o una roccia. Si bilanciavano, così, da una parte o dall'altra, fronte a fronte, aspettando ambedue il momento propizio, fin quando il magnifico gruppo statuario si dissolveva in un vortice di spire giallo-nere, e di gambe e di braccia annaspanti, per ricomporsi e sciogliersi di nuovo. - A te! A te! A te! - diceva Kaa, abbozzando con la testa finte improvvise che nemmeno la rapida mano di Mowgli riusciva a parare. - Ecco! Toccato, Fratellino! Qui, e ancora qui! Hai le mani intorpidite? Toccato ancora!... Il gioco finiva sempre nello stesso modo, con un fulmineo colpo di testa che mandava il ragazzo a gambe all'aria. Mowgli non era mai riuscito a parare quel colpo fulmineo e, a sentire Kaa, non valeva nemmeno la pena che ci si provasse. - Buona caccia! - concluse finalmente Kaa; e Mowgli, come al solito, venne proiettato una dozzina di piedi più in là, affannato e ridente. Si rimise in piedi con le dita piene d'erba, e seguì Kaa verso il luogo prediletto dal saggio serpente per fare il bagno, una pozza profonda, nera come la pece, circondata da rocce e resa attraente da tronchi d'albero sommersi. Il ragazzo vi scivolò dentro all'uso della Jungla, senza far rumore, e si tuffò; poi riapparve sempre silenziosamente e si rovesciò sul dorso con le braccia dietro il capo, guardando la luna che sorgeva dietro le rocce, spezzandone il riflesso nell'acqua con le dita dei piedi. La testa a forma di diamante di Kaa tagliò la superficie dell'acqua come un rasoio e venne a posarsi sulla spalla di Mowgli. Rimasero immobili ambedue, a godersi voluttuosamente la freschezza dell'acqua. - Si sta proprio bene - disse infine Mowgli, con voce sonnacchiosa. - Nel Branco degli Uomini, a quest'ora, se ben ricordo, tutti si allungano su dure tavole di legno dentro una trappola di fango e, dopo aver accuratamente chiuso fuori l'aria pura, si tirano sul capo i panni sporchi e fanno dei versacci col naso. Si sta meglio nella Jungla. Un cobra frettoloso scivolò giù da una roccia; bevve, augurò «Buona caccia!» e scomparve. - Ssssh! - disse Kaa, come se si fosse improvvisamente ricordato qualcosa. - Dunque, la Jungla ti dà tutto ciò che puoi desiderare, Fratellino? - Non tutto - rispose Mowgli ridendo; - ci vorrebbe un nuovo e terribile Shere Khan da uccidere ad ogni luna. Adesso potrei ucciderlo con le mie mani, senza chieder l'aiuto dei bufali. Mi sarebbe anche piaciuto vedere il sole splendere durante la stagione delle piogge, e le piogge oscurare il sole nel colmo dell'estate. Non sono mai rimasto a stomaco vuoto senza desiderare di aver ucciso almeno una capra; e, se uccidevo una capra, avrei voluto aver ucciso un daino; se uccidevo un daino, poi, avrei desiderato che fosse un nilgau. Ma è quello che accade a tutti noi. - Non hai altri desideri? - chiese il grosso serpente. - Che altro potrei desiderare? Ho la Jungla e il Favore della Jungla! Vi è forse qualcosa di più tra l'alba e il tramonto? - Eppure, il Cobra ha detto... - cominciò Kaa. - Quale cobra? Quello che è sgusciato via un momento fa non ha detto niente. Stava cacciando. - Era un altro a cui pensavo. - Hai dunque molti rapporti con il Popolo Velenoso? Io li lascio andare per la loro strada. Portano la morte nel dente davanti, e questo non è bene, piccoli come sono. Ma con quale Cappuccio hai parlato? Kaa si dondolò lentamente, come un battello nel mare agitato. - Quattro o cinque lune or sono - disse - stavo cacciando alle Grotte Fredde, un posto che tu non hai certo dimenticato. E la cosa a cui davo la caccia fuggì stridendo oltre le cisterne, verso quella casa di cui una volta dovetti per causa tua sfondare la parete, e scomparve sotterra. - Ma il Popolo delle Grotte Fredde non vive sotterra. - Mowgli sapeva che Kaa stava parlando delle scimmie. - Non era che quella cosa vi abitasse, ma vi cercava uno scampo - rispose Kaa con un fremito nella lingua. - Si infilò in una tana che si spingeva molto lontano. Lo seguii, e, dopo averlo ucciso, mi addormentai: quando mi destai continuai a spingermi avanti. - Sotto terra? - Proprio così, finché incontrai un Cappuccio Bianco (un cobra bianco) che mi parlò di cose incomprensibili per me, e mi mostrò un mucchio di cose che non avevo mai visto. - Una nuova preda? Una buona caccia? - Mowgli si voltò rapidamente sul fianco. - No, non era selvaggina e sarebbero bastate a rompermi tutti i denti; ma il Cappuccio Bianco mi disse che un uomo (egli parlava come uno che conoscesse bene la razza umana), che un uomo avrebbe data tutta la sua vita solo per poter vedere quelle cose. - Le andremo a vedere - disse Mowgli. - Ora mi ricordo d'esser stato un uomo, un tempo. - Piano... piano. Fu la fretta ad uccidere il Serpente Giallo, che mangiò il sole. Noi due parlammo insieme sotterra, e io parlai di te, dicendo che eri un uomo. Allora il Cappuccio Bianco (che è realmente vecchio come la Jungla) disse: «Da molto tempo non ho più visto un uomo. Fallo venire perché veda tutte queste cose, per la più piccola delle quali molti uomini sarebbero pronti a dar la vita». - Dev'essere una selvaggina nuova. Eppure il Popolo Velenoso non ci avverte mai dove si può trovare della selvaggina. Non è gente di cui ci si possa fidare. - NON è selvaggina. E'... è... non so spiegarti che cos'è. - Ci andremo. Io non ho mai visto un Cappuccio Bianco, e desidero vedere tutte le altre cose. Le ha uccise lui? - Sono tutte cose morte. Dice di esserne il custode. - Ah! come il lupo sta sopra la carne che si è portato nella tana. Andiamo! Mowgli nuotò fino a riva, si rotolò nell'erba per asciugarsi, e i due si mossero alla volta delle Grotte Fredde, la città abbandonata di cui avrete forse già sentito parlare. Mowgli non aveva più nessun timore delle scimmie, ma il Popolo delle Scimmie invece aveva di lui un vero terrore. Le loro tribù stavano comunque razziando nella Jungla, cosicché le Grotte Fredde apparivano vuote e silenziose sotto il chiarore lunare. Kaa avanzò con Mowgli verso le rovine del padiglione della regina che sorgeva sulla terrazza, strisciò sulle macerie e si infilò giù per la scala mezzo demolita che partiva dal centro del padiglione. Mowgli lanciò il richiamo del serpente: - Siamo di uno stesso sangue, voi ed io! - e gli tenne dietro carponi. Strisciarono per un lungo tratto entro una stretta galleria che svoltava a più riprese, e infine giunsero là dove le radici di un grosso albero, alto trenta piedi, avevano smosso un solido masso nel muro. Si introdussero per la fenditura e si trovarono in una grande sala, il cui tetto a cupola, sconnesso dalle radici degli alberi, lasciava passare un sottile raggio di luce a rompere l'oscurità. - Una tana sicura - disse Mowgli rimettendosi saldamente in piedi - ma troppo distante per venirci tutti i giorni. E adesso, che cosa c'è da vedere? - E io non conto niente? - chiese una voce nel mezzo della sala. Mowgli vide muoversi qualcosa di bianco, finché a poco a poco vide rizzarglisi di fronte il più grosso cobra che avesse mai scorto, un essere lungo quasi otto piedi, e che, per aver sempre vissuto nelle tenebre, aveva preso una tinta di avorio antico. Perfino il segno degli occhiali sul cappuccio aperto era sbiadito in un giallo pallido. Gli occhi erano rossi come rubini e tutto il suo insieme era fuori dell'ordinario. - Buona caccia! - disse Mowgli, che non dimenticava mai le buone maniere, così come non abbandonava mai il coltello. - Che notizie dalla città? - chiese il cobra bianco, senza rispondere al saluto. - Che notizie della grande città cinta di mura, la città dei cento elefanti, dei ventimila cavalli e dell'innumerevole bestiame, la città del Re di venti Re? Qui sono diventato sordo ed è gran tempo che non odo più i loro gong di guerra. - Solo la Jungla sta sopra le nostre teste - rispose Mowgli; - di elefanti io non conosco che Hathi e i suoi figli. Bagheera ha scannato tutti i cavalli del villaggio e... che cos'è un Re? - Ti ho già detto, - disse dolcemente Kaa al cobra - ti ho già detto quattro lune fa che la tua città non esiste più. - La città, la grande città della foresta le cui porte sono guardate dalle torri del Re, non potrà mai sparire. Essa fu costruita prima che il padre di mio padre uscisse dall'uovo e durerà fino a quando i figli dei miei figli saranno diventati bianchi come me! Salomdhi, figlio di Chandrabija, figlio di Viyeja, figlio di Yegasuri, la costruì ai tempi di Bappa Rawal. Di chi voi siete gli animali? - E' una traccia perduta - disse Mowgli volgendosi a Kaa. - Io non capisco il suo linguaggio. - E io nemmeno. E' molto vecchio. Padre del Cobra, non c'è che la Jungla qui, e c'è sempre stata. - Allora chi è LUI - chiese il Cobra Bianco - che sta dinanzi a me senza paura, e non conosce il nome del Re e parla il nostro linguaggio con le sue labbra d'uomo? Chi è costui col suo coltello e la sua lingua di serpente? - Mi chiamano Mowgli - fu la risposta; - sono della Jungla. I lupi sono il mio popolo e Kaa qui presente è mio fratello. Padre dei Cobra, e tu chi sei? - Io sono il Custode del Tesoro del Re. Kurrun Raja costruì la volta di pietra che mi sovrasta, nei tempi in cui la mia pelle era scura, perché io potessi insegnare la morte a quelli che venivano per rubare. Calarono il tesoro attraverso la volta, ed io sentii il canto dei Bramini miei padroni. - Uhm! - disse Mowgli fra sé e sé. - Ho già avuto a che fare con un Bramino nel Branco degli Uomini e... ho le mie convinzioni in proposito. Ho paura che qui andrà a finir male. - Da quando io sono qui, la volta è stata sollevata cinque volte, ma sempre per calare nuove ricchezze, mai per portarne via. Non esistono ricchezze paragonabili a queste, le ricchezze di centinaia di re. Ma molto tempo è passato da quando la pietra fu rimossa per l'ultima volta, e credo che la mia città lo abbia dimenticato. - Non vi è più città. Guarda in su: le radici dei grandi alberi hanno sconnesso le pietre della volta. Alberi e uomini non crescono insieme, - insistette Kaa. - Due o tre volte gli uomini sono riusciti a spingersi sin qui - rispose il Cobra Bianco con ferocia; - ma non proferivano parola fino a quando io piombavo loro addosso, mentre avanzavano a tentoni nel buio, e allora il loro grido non durava che un attimo. Ma voi, Uomo e Serpente, voi mentite e vorreste farmi credere che la città non esiste più, e che il mio compito di guardiano è finito. Poco mutano gli uomini nel corso degli anni, ma io non cambio mai! Fino a quando non verrà alzata la pietra e i Bramini non scenderanno cantando gli inni che conosco e mi nutriranno di latte caldo e mi riporteranno alla luce, io, io, io e nessun altro sono il Custode del Tesoro del Re! La città è morta, voi dite, e qui si insinuano le radici degli alberi? Chinatevi allora e prendete quel che volete. La terra non ha tesori simili a questi. Uomo che parli il linguaggio dei serpenti, se riuscirai ad uscire vivo per la stessa via per cui sei entrato, tutti i Re saranno tuoi servi. - Ecco di nuovo perduta la traccia - disse freddamente Mowgli. - Che uno sciacallo abbia scavato così profondamente da arrivare a mordere questo enorme Cappuccio Bianco? E' certamente pazzo. Padre dei Cobra, qui io non vedo nulla da portar via. - Per gli Dei del Sole e della Luna, la follia della morte è scesa su questo ragazzo! - sibilò il Cobra. - Prima che i tuoi occhi si chiudano, ti concederò questo favore. Guardati attorno e ammira quello che nessun occhio umano ha mai visto prima d'ora! - Sono fuori strada quelli che nella Jungla parlano di favori a Mowgli - disse il ragazzo fra i denti. - Ma l'oscurità cambia ogni cosa, lo so. Guarderò, se ti fa piacere. Socchiudendo gli occhi, volse lo sguardo per il sotterraneo e poi raccolse da terra una manciata di qualcosa che scintillava. - Oh, - disse - questa roba assomiglia a quella con cui giocano gli uomini del Branco. Soltanto, questa è gialla, mentre quella era bruna. Lasciò cadere le monete d'oro e fece qualche passo avanti. Il pavimento del sotterraneo era coperto, per uno spessore di cinque o sei piedi, di monete d'oro e d'argento che eran rotolate fuori dai sacchi dove erano state riposte originariamente, e, nel corso degli anni, il metallo aveva finito per formare un insieme compatto, come la sabbia alla bassa marea. Sopra e in mezzo ad esso sporgevano, come i relitti di un naufragio sulla spiaggia "howdahs" da elefanti, in argento sbalzato, incrostati di piastre d'oro adorne di rubini e turchesi. Vi erano palanchini e lettighe per il trasporto di regine, guarnite d'argento e di smalto, con le maniglie dall'impugnatura di giada, e anelli d'ambra per le tendine; candelabri d'oro tempestati di smeraldi sfaccettati; immagini d'argento alte cinque piedi di divinità dimenticate, con gli occhi di gemme; cotte di maglia d'acciaio tempestate d'oro, guarnite di perle sciupate e annerite; elmi col cimiero orlato di rubini; scudi di lacca, di tartaruga e di pelle di rinoceronte, lavorati con rilievi d'oro rosso e frangiati ai bordi di smeraldi; fasci di spade, di daghe, di coltelli da caccia dalle impugnature incrostate di diamanti; coppe e patene d'oro per i sacrifici, altari portatili di una forma mai vista; tazze e braccialetti di giada, turiboli, pettini, vasi da profumi, da hennè, da polvere per gli occhi, tutti d'oro sbalzato; anelli da naso, braccialetti, diademi, ditali e cinture senza numero; cinture larghe sette pollici di diamanti e rubini sfaccettati a quadri; cofani di legno, a triplice chiusura di ferro, da cui si era staccato il legno ridotto in polvere dai tarli, rivelando mucchi di zaffiri stellati, opali, occhi di gatto, rubini, diamanti, smeraldi e granate. Il Cobra Bianco aveva ragione. Nessuna somma di denaro sarebbe bastata a pagare neppure in parte il valore di quel tesoro, frutto di bottino accumulato in secoli di guerra, di saccheggi, commerci e tributi. Le monete rappresentavano da sole un valore inestimabile, senza contare le pietre preziose; e il peso dell'oro e dell'argento poteva aggirarsi intorno a due o trecento tonnellate. In India ogni sovrano indigeno, per quanto povero, anche oggi possiede sempre un tesoro che accresce di continuo; e sebbene, una volta ogni tanto, qualche principe illuminato si induca a tramutare quaranta o cinquanta carri d'argento in titoli di stato, la maggior parte di essi conserva il suo tesoro e ne tiene gelosamente celato il nascondiglio. Mowgli però di queste cose non capiva naturalmente nulla. I coltelli lo interessavano abbastanza, ma non li trovò bene bilanciati come il suo, così che li lasciò subito cadere. Alla fine trovò qualcosa di veramente attraente, posato sopra un "howdah" quasi sepolto fra le monete. Era un "ankus" (un pungolo da elefanti) lungo tre piedi, qualcosa di simile ad un piccolo gancio di attracco; il pomo era costituito da un rubino tondo e scintillante, e l'impugnatura lunga otto pollici era incrostata di turchesi grezze saldate le une alle altre, ed offriva un'ottima presa. Al disotto di questa era un cerchio di giada con un fregio di fiori tutto intorno; solo le foglie erano fatte di smeraldi, e i boccioli di rubini incastonati nella pietra fredda e verde. Il resto dell'impugnatura era di puro avorio, mentre la punta e l'uncino erano di acciaio damaschinato d'oro, con scene di caccia all'elefante; quei disegni attrassero Mowgli, che constatò come avessero a che fare con il suo amico Hathi, il silenzioso. Il Cobra Bianco lo aveva seguito dappresso. - Non trovi che val la pena di morire per vedere tutto questo? - chiese. - Non ti ho fatto un grande favore? - Non capisco - rispose Mowgli. - Le cose sono dure e fredde, e per nulla buone da mangiare. Ma questo - e sollevò l'"ankus" - mi piacerebbe portarlo via, così da poterlo esaminare alla luce del sole. Dici che è tutta roba tua? Me lo puoi dare? Io ti porterò in compenso delle rane da mangiare. Il Cobra Bianco ebbe un fremito di gioia maligna: - Certo che te lo darò - disse. - Tutto quello che è qui dentro ti darò... finché non te ne andrai. - Ma io vado subito. Questo posto è buio e freddo, ed io vorrei portare questa cosa appuntita nella Jungla. - Guarda ai tuoi piedi! Che cosa vedi? Mowgli raccattò qualcosa di bianco e di liscio: - E' un teschio umano - disse tranquillamente. - E qui, ve ne sono altri due. - Costoro vennero per rapire il tesoro molti anni or sono. Ma io dissi loro una parola nelle tenebre ed essi non si mossero più. - Ma che bisogno ho io di questo che tu chiami tesoro? Se tu vorrai darmi l'"ankus" da portar via per me sarà buona caccia. Se no, sarà buona caccia ugualmente. Io non mi batto col Popolo Velenoso e conosco la Parola Maestra della tua tribù. - Qui non esiste che una sola Parola Maestra: la mia! Kaa si fece avanti di scatto con occhi fiammeggianti: - Chi mi ha chiesto di portare l'Uomo? - sibilò. - Io, senza dubbio - fischiò il vecchio Cobra. - Da molto tempo non avevo più visto l'uomo e questo parla la nostra lingua. - Ma non si parlò d'uccidere. Come posso tornare nella Jungla e dire che l'ho portato alla morte? - chiese Kaa. - Non parlo di uccidere finché non sarà giunto il momento. E, quanto al tuo andare o restare, c'è un foro nella parete. Stattene dunque tranquillo, grosso uccisore di scimmie! Non ho che da toccarti il collo e la Jungla non sentirà più parlare di te. Nessun Uomo entrato qui dentro n'è mai uscito vivo. Io sono il Custode del Tesoro della Città del Re! - Ma se ti dico, bianco verme delle tenebre, che qui non vi sono né re, né città. Sopra di noi non c'è che la Jungla! - gridò Kaa. - Il Tesoro è ancora qui. Ma si può fare una cosa. Kaa delle Rocce, aspetta un poco e guarda correre il ragazzo. Qui c'è spazio per divertirsi. La vita è bella. Ragazzo, corri avanti e indietro, e divertiti! Mowgli posò tranquillamente la mano sulla testa di Kaa. - La cosa bianca ha avuto finora a che fare con uomini del Branco degli Uomini. Non mi conosce - mormorò. - Ha voluto questa caccia e l'avrà. Mowgli stava ritto con la punta dell'"ankus" volta verso il basso. Lo scagliò rapido come il baleno, facendolo cadere di traverso proprio dietro il cappuccio del grosso serpente che rimase inchiodato al suolo. In quello stesso istante Kaa, con tutto il suo peso, fu addosso al corpo che si contorceva, immobilizzandolo dal cappuccio alla coda. I rossi occhi lanciavano fiamme, e i sei pollici della testa ancora libera si battevano furiosamente a destra e a manca. - Uccidi! - disse Kaa, mentre la mano di Mowgli si portava al coltello. - No - disse il giovane, sguainando la lama. - Non ucciderò mai più se non per fame. Ma guarda, Kaa! - afferrò il cobra dietro il cappuccio, gli aprì a forza la bocca con la lama del coltello e gli scoprì i terribili denti del veleno che spuntavano neri e disseccati dalla mascella. Il Cobra Bianco era sopravvissuto al suo veleno, come vuole la sorte dei serpenti. - "Thuu" (E' disseccato) (Letteralmente: ceppo imputridito. Nota del traduttore) - disse Mowgli; e, accennando a Kaa di avviarsi per uscire, raccolse l'"ankus", lasciando libero il Cobra Bianco. - Il Tesoro dei Re ha bisogno di un nuovo custode - disse con tono grave. - "Thuu", tu ti sei comportato male! Corri avanti e indietro e divertiti, "Thuu"! - Mi hai coperto di vergogna. Uccidimi! - sibilò il Cobra Bianco. - Si è già parlato anche troppo di uccidere. Adesso andiamo; io mi porto via questa cosa appuntita, "Thuu", perché ho combattuto e ti ho vinto. - Bada, allora, che la cosa non finisca per uccidere anche te. E la Morte! Ricordati, è la Morte! In questa cosa c'è quanto basta per uccidere gli uomini di tutta la mia città. Non lo terrai a lungo, Figlio della Jungla, come non lo terrà quello che lo avrà da te. Essi non faranno che uccidere e uccidere per causa sua! La mia forza è spenta, ma l'"ankus" farà le mie veci. E' la Morte! La Morte! La Morte! Mowgli sgusciò fuori del corridoio attraverso la breccia: l'ultima cosa che vide fu il Cobra Bianco mordere furiosamente con i suoi denti ormai innocui le stolide facce dorate degli dei che giacevano al suolo, sibilando: - E' la Morte! Entrambi furono lieti di ritrovarsi alla luce del giorno; e, quando furono di ritorno nella loro Jungla, e Mowgli fece brillare l'"ankus" ai raggi del sole, si sentì felice quasi come se avesse trovato un mazzo di fiori freschi da infilare nei capelli. - E' più brillante degli occhi di Bagheera - osservò compiaciuto, facendo rigirare il rubino. - Voglio mostrarglielo. Ma che cosa intendeva dire il "Thuu", quando parlava di morte? - Non lo so. Mi dispiace fino alla punta della coda che non abbia assaggiato il tuo coltello. Alle Grotte Fredde qualcosa si trova sempre di male, o sopra o sotto terra. Ma adesso ho fame. Vuoi venire a caccia con me, stamani? - chiese Kaa. - No, Bagheera deve prima vedere questa cosa. Buona caccia! - e Mowgli si allontanò di corsa, agitando il grande "ankus", fermandosi di quando in quando ad ammirarlo, finché arrivò a quella parte della Jungla che Bagheera era solita frequentare; la trovò infatti che stava bevendo, dopo una grossa caccia. Mowgli le raccontò tutte le sue avventure da cima a fondo e Bagheera fiutò l'"ankus" a più riprese. Quando Mowgli arrivò alle ultime parole del Cobra Bianco, la pantera ronfò in segno di approvazione. - Allora il Cappuccio Bianco ha detto la verità? - si informò vivamente Mowgli. - Io sono nata nelle gabbie del Re di Oodeypore, e credo di conoscere qualcosa dell'Uomo. Molti uomini ucciderebbero anche tre volte nella stessa notte, per amore di quest'unica pietra rossa. - Ma la pietra non fa che appesantirlo. E' molto meglio il mio coltellino lucente: e guarda! la pietra rossa non è buona da mangiare. E perché allora gli uomini dovrebbero uccidere? - Mowgli, vattene a dormire. Tu hai vissuto fra gli uomini e... - Mi ricordo: gli uomini uccidono anche quando non vanno a caccia: uccidono per divertimento e per ingannare l'ozio. Svegliati, Bagheera, a quale uso era destinata questa cosa appuntita? Bagheera aprì gli occhi solo a metà (aveva un gran sonno), con un sorriso malizioso: - Fu fatta dagli uomini per essere conficcata nella testa dei figli di Hathi, così da farne scorrere il sangue. Ne ho visto un'altra uguale nella strada di Oodeypore, davanti alle nostre gabbie. Quella cosa lì ha assaggiato il sangue di molti fratelli di Hathi. - Ma perché conficcarla nella testa degli elefanti? - Per insegnare ad essi la Legge dell'Uomo. Non avendo né artigli, né denti, gli uomini fabbricano cose come questa e anche peggiori. - Trovo sempre del sangue quando mi accosto alle cose fatte dal Branco degli Uomini - disse Mowgli con disgusto. Il peso dell'"ankus" lo aveva un poco affaticato. - Se lo avessi saputo prima, non lo avrei preso. Prima era il sangue di Messua sulle funi che la legavano, e ora è quello di Hathi. Non voglio più servirmene. Guarda! Buttò via l'ankus, e questo, con un barbaglio, andò a conficcarsi nel terreno una trentina di passi più in là, in mezzo agli alberi. - Così ora le mie mani sono monde dalla Morte - concluse Mowgli, stropicciando le palme sul terreno umido e fresco. - Il "Thuu" aveva detto che la Morte mi avrebbe seguito. Ma è vecchio, bianco e pazzo. - Bianco o nero, vivo o morto, Fratellino, io me ne vado a dormire. Non posso cacciare tutta la notte e urlare tutto il giorno, come fa certa gente - e Bagheera si avviò verso una tana che conosceva a circa due miglia di là. Mowgli si trovò un posto adatto su di un albero, annodò insieme tre o quattro liane e, in men che non si dica, si dondolava già dentro un'amaca a cinquanta piedi da terra. Sebbene non avesse una decisa avversione per la luce del giorno, Mowgli seguiva l'usanza dei suoi amici, e se ne valeva il meno possibile. Quando si svegliò per gli schiamazzi degli abitanti degli alberi, era di nuovo il crepuscolo ed egli aveva sognato le magnifiche gemme che aveva gettato via. - Voglio guardare almeno ancora una volta quella cosa - decise, lasciandosi scivolare lungo una liana fino a terra; ma Bagheera gli comparve dinanzi. Mowgli la sentì fiutare rumorosamente nella mezza luce del crepuscolo. - Dov'è la cosa pungente come una spina? - chiese Mowgli. - L'ha presa un uomo. Ci sono le sue tracce. - Ora vedremo se il "Thuu" ha detto la verità. Se la cosa appuntita è la Morte, quell'uomo dovrà morire. Seguiamolo. - Prima bisogna ammazzare - osservò Bagheera; - lo stomaco vuoto rende l'occhio disattento. Gli uomini camminano molto lentamente, e la Jungla è abbastanza umida per conservare anche la traccia più lieve. Uccisero appena fu loro possibile, ma trascorsero quasi tre ore prima che avessero finito il pasto, bevuto e iniziata la ricerca della traccia. Il Popolo della Jungla sa che mangiare affrettatamente non fa bene. - Pensi che la cosa aguzza possa rivoltarsi nelle mani dell'uomo e ucciderlo? - chiese Mowgli. - Il "Thuu" ha detto che era la Morte. - Vedremo quando lo troveremo - disse Bagheera, trotterellando a testa bassa. - E' un piede solo (voleva dire che era un uomo solo), e la cosa che portava con sé gli ha fatto affondare molto il calcagno nel terreno. - Ah, tutto è chiaro come la luce del sole in estate - soggiunse Mowgli; e presero l'andatura rapida e mutevole di chi segue una traccia, comparendo e disparendo nell'alternarsi di luci e ombre del chiaro di luna, dietro le orme dei due piedi nudi. - Qui si è messo a correre più rapidamente; le dita dei piedi si allargano. - Attraversarono un tratto di terreno umido. - E adesso, perché muta direzione? - Aspetta! - disse Bagheera, spiccando un balzo in avanti più lungo che poté. La prima cosa da fare, quando una traccia si confonde, è di gettarsi avanti senza lasciare sul terreno le proprie orme, che accrescerebbero la confusione. Bagheera toccò terra e si voltò verso Mowgli gridando: - Qui vi è una traccia che incrocia la prima. E' di un piede più piccolo, la seconda traccia, e i pollici sono volti in dentro. Mowgli la raggiunse ed osservò: - E' il piede di un cacciatore Gond. Guarda, qui ha lasciato il suo arco nell'erba. Ecco perché la prima traccia ha deviato così improvvisamente: il Piede Grande ha cercato di nascondersi al Piede Piccolo. - E' vero - confermò Bagheera. - Ora, per evitare di confondere le loro tracce con le nostre, seguiamo ognuno una pista separata. Io sono Piede Grande, Fratellino, e tu Piede Piccolo, il Gond. Bagheera si riportò indietro con un balzo, sulla traccia originaria, lasciando Mowgli chino a studiare le curiose orme del piccolo selvaggio dei boschi. - Ora - disse Bagheera, procedendo passo a passo lungo la catena delle impronte - io, Piede Grande, volto da questa parte. Poi mi nascondo dietro una roccia e rimango immobile, senz'osare di muovere un piede. Grida la tua traccia, Fratellino. - Ora io, Piede Piccolo, mi muovo in direzione della roccia - disse Mowgli seguendo di corsa la sua traccia. - Ora mi acquatto sotto la roccia, appoggiandomi sulla mano destra e tenendo l'arco tra i piedi. Aspetto un bel po', perché l'impronta dei miei piedi qui è profonda. - Anch'io - disse Bagheera nascosta dietro la roccia. - Io aspetto appoggiando l'estremità della cosa appuntita sopra una pietra. La cosa scivola, perché c'è uno sgraffio sulla pietra. Segnala la tua traccia, Fratellino. - Qui sono stati rotti due ramoscelli e un ramo grosso - sussurrò Mowgli. - Come debbo spiegarlo? Ah, è chiaro. Io, Piede Piccolo, mi allontano pestando i piedi e facendo rumore in modo da farmi sentire da Piede Grande. - Si distaccò dalla roccia procedendo passo passo in mezzo agli alberi, alzando la voce a distanza man mano che si avvicinava ad una cascatella. - Io... vado... lontano... dove... il rumore... dell'acqua che cade... copre... il rumore... che faccio... e aspetto... qui. Segnala la tua traccia, Bagheera, Piede Grande! La pantera aveva cercato in ogni direzione, per veder da dove la traccia di Piede Grande si dipartiva da dietro la roccia. Poi gridò: - Avanzo da dietro la roccia ginocchioni, trascinando con me la cosa a punta aguzza. Non vedendo nessuno, mi metto a correre. Io, Piede Grande, corro veloce. La traccia è chiara. Ognuno di noi segua la propria. Io, corro! Bagheera si slanciò rapida lungo la traccia chiaramente segnata, e Mowgli seguì le orme del Gond. Per qualche tempo nella Jungla regnò il silenzio. - Dove sei, Piede Piccolo? - gridò Bagheera. La voce di Mowgli rispose da destra a meno di cinquanta passi. - Uhm! - fece la pantera con un forte colpo di tosse. - I due corrono uno a fianco all'altro e si vanno avvicinando! Continuarono a correre per un altro mezzo meglio, mantenendo pressappoco sempre la stessa distanza, finché Mowgli, che non teneva la testa così vicina a terra come Bagheera, gridò: - Si sono incontrati. Buona caccia!... Guarda! Qui si è fermato Piede Piccolo, posando un ginocchio sulla roccia... e là in basso c'è Piede Grande in carne ed ossa! A meno di dieci passi davanti a loro, disteso su un mucchio di pietre, giaceva il corpo di un indigeno, trapassato da parte a parte da una sottile freccia di Gond adorna di piume. - Ti sembra che il "Thuu" fosse proprio così vecchio e così pazzo, Fratellino? - chiese tranquilla Bagheera. - Qui c'è per lo meno un morto. - Prosegui. Ma dov'è la cosa che beve il sangue dell'elefante, la spina dall'occhio rosso? - L'avrà Piede Piccolo... forse. Ora c'è di nuovo una sola traccia. La singola traccia di un uomo leggero, che aveva corso rapidamente reggendo un peso sulla spalla sinistra, svoltava intorno a un lungo e basso sperone di erba secca dove ogni impronta di piede appariva, allo sguardo acuto dei due inseguitori, come impressa nel ferro rovente. Nessuno dei due parlò fino a quando la traccia giunse alle ceneri di un fuoco da campo, nascosto in un avvallamento del terreno. - Ancora! - disse Bagheera, fermandosi di botto, come impietrita dallo stupore. Il corpo di un piccolo Gond rattrappito giaceva coi piedi nella cenere, e Bagheera guardò Mowgli con aria interrogativa. - Questo è stato ucciso a colpi di bambù - disse il ragazzo dopo aver dato un'occhiata al cadavere. - Ho usato un attrezzo simile per condurre al pascolo i bufali, quando servivo nel Branco degli Uomini. Il Padre dei Cobra (e mi dispiace di averlo sbeffeggiato) conosceva bene la razza come dovrei conoscerla anch'io. Non ho sempre detto che gli uomini uccidono per passatempo? - Veramente, hanno ucciso per amore delle pietre rosse e azzurre - rispose Bagheera. - Ricordati che io sono stata nelle gabbie reali a Oodeypore. - Una, due, tre, quattro tracce - disse Mowgli esaminando da presso le ceneri. - Quattro impronte di uomini con piedi calzati. Essi non camminano svelti come i Gond. Eppure, che male aveva loro fatto questo piccolo boscaiolo? Guarda, hanno parlato tra loro, tutti e cinque, in piedi, prima di ucciderlo. Bagheera, torniamo indietro. Mi sento il cuore pesante, benché mi vada su e giù nel petto come un nido di oriolo appeso all'estremità di un ramo. - Non è buona caccia lasciare la selvaggina in piedi. Proseguiamo - disse la pantera. - Questi otto piedi calzati non possono essere andati lontano. Per oltre un'ora non scambiarono più una parola, intenti com'erano a seguire la larga traccia dei quattro uomini dai piedi calzati. Era ormai giorno pieno, quando Bagheera disse: - Sento odore di fumo. - Gli uomini sono sempre più pronti a mangiare che a correre - osservò Mowgli, emergendo e tornando a scomparire tra i bassi cespugli della nuova Jungla che stavano esplorando. Bagheera, che si teneva un po' a sinistra, emise dalla gola un suono intraducibile. - Qui ce n'è uno che non ha più bisogno di mangiare - disse. Un mucchietto di abiti dai colori vivaci giaceva sotto un cespuglio, e tutt'intorno era sparsa della farina. - Anche qui si sono serviti di un bambù - disse Mowgli. - Guarda! La polvere bianca è quella di cui si nutrono gli uomini. Hanno rubato la preda a questo che portava i viveri, e l'hanno lasciato come preda a Chil l'Avvoltoio. - E' già il terzo - osservò Bagheera. - Voglio andare a rimpinzare di ranocchi grossi e freschi il Padre dei Cobra - disse Mowgli fra sé. - La cosa che beve il sangue d'elefante è la Morte in persona... eppure non capisco ancora! - Proseguiamo! - disse Bagheera. Non avevano ancora percorso un mezzo miglio, quando intesero Ko, il Corvo, cantare la canzone della morte in cima a un tamarisco, all'ombra del quale giacevano tre uomini. Un fuoco mezzo spento fumava nel centro, sotto un piatto di ferro che conteneva una focaccia di pasta senza lievito, bruciacchiata e annerita. Accanto al fuoco scintillavano al sole i rubini e gli zaffiri dell'"ankus". - La cosa opera rapidamente, e tutto finisce qui - disse Bagheera. - Come sono morti, questi, Mowgli? Non c'è nessuna traccia che lo riveli. Un abitante della Jungla impara per esperienza più di quanto molti medici conoscano per studio circa le erbe e i frutti velenosi. Mowgli fiutò il fumo che saliva dal fuoco, ruppe un boccone della focaccia annerita, lo assaggiò e lo risputò subito. - Pomo di Morte! - disse e tossì. - Il primo deve averne messo nel cibo che aveva preparato per questi, che hanno ucciso lui dopo avere ucciso il Gond. - Buona caccia per davvero! Le morti si susseguono da vicino! - commentò Bagheera. «Pomo di Morte» è il nome che nella Jungla si dà allo stramonio o "dhatura", il veleno più terribile di tutta l'India. - E adesso? - chiese la Pantera. - Dobbiamo ucciderci anche noi due, per causa di quel massacratore dall'occhio rosso? - Può parlare? - domandò Mowgli in un soffio. - Che io gli abbia fatto un torto, quando l'ho buttato via? A noi due non può nuocere, perché noi non desideriamo ciò che gli uomini desiderano. Se lo lasciassimo qui, continuerebbe ad uccidere un uomo dopo l'altro, con la stessa rapidità con cui un forte vento fa cadere le noci. Io non amo gli uomini, ma non voglio neppure che muoiano a sei per notte. - Che importa? Non sono che uomini! Si sono ammazzati uno contro l'altro, senza il minimo rammarico - disse Bagheera. - Il primo, quel piccolo boscaiolo, era un buon cacciatore. - Malgrado tutto, non sono che cuccioli e un cucciolo affogherebbe per cercar di addentare un raggio di luna nell'acqua. La colpa è stata mia - concluse Mowgli, che parlava come se sapesse tutto di tutte le cose. - Non porterò mai più cose strane nella Jungla, fossero pur belle come i fiori. Questo - e tocco l'"ankus" con fare circospetto - ritorna al Padre dei Cobra. Ma prima dobbiamo dormire e non possiamo riposare vicino a dormienti come questi. E dobbiamo anche seppellirlo, perché non ci sfugga e non ne ammazzi altri sei. Scavami una buca sotto quell'albero. - Ma, Fratellino - osservò Bagheera, dirigendosi verso il luogo indicato - io ti dico che la colpa non è del bevitore di sangue! La colpa è degli uomini. - E' lo stesso - disse Mowgli. - Scava una buca profonda; quando ci sveglieremo, lo riporterò dov'era prima. Due notti dopo, mentre il Cobra Bianco se ne stava nell'oscuro sotterraneo, avvilito, derubato e solo, l'"ankus" di turchesi volò attraverso il foro della parete e cadde tintinnando sul pavimento coperto di monete d'oro. - Padre dei Cobra - disse Mowgli (tenendosi prudentemente dall'altra parte del muro) - tròvati un aiutante giovane e capace fra il tuo popolo per custodire il Tesoro del Re, così che nessun uomo possa ancora uscire vivo da qui. - Ah, ah! Ritorna, dunque! L'ho detto che la cosa era la Morte. Come mai tu sei ancora vivo? - brontolò il vecchio Cobra, avvolgendo amorosamente le sue spire intorno all'impugnatura dell'"ankus". - Per il Toro che mi ha riscattato, non lo so! Questa cosa ha ucciso sei volte in una notte. Non lasciarla mai più uscire di qui. La canzone del Piccolo Cacciatore. Prima che Mor il Pavone svolazzi, prima che il popolo delle Scimmie schiamazzi, prima che Chil il Nibbio piombi rapido e in picchiata, per la Jungla aleggiano lievissimi un'ombra e un sospiro - è la Paura, o Piccolo Cacciatore, è la Paura! Lievissima corre giù nella radura un'ombra che aspetta e guarda e il mormorio si propaga e si amplia vicino e lontano; e il sudore ti imperla il ciglio, perché passa anche ora - è la Paura, o Piccolo Cacciatore, è la Paura! Prima che la luna si sia affacciata sopra la montagna, prima che le rocce siano sfiorate dalla luce, quando i sentieri che pendono in discesa sono umidi, un soffio affannoso arriva dietro di te - soffia e soffia nella notte - è la Paura, o Piccolo Cacciatore, è la Paura! In ginocchio, tendi l'arco, scocca la freccia acuta; nella vuota, beffarda macchia affonda la lancia; ma le tue mani sono lente e deboli, e il sangue ha abbandonato la tua guancia - è la Paura, o Piccolo Cacciatore, è la Paura! Quando la nuvola rovente succhia la tempesta, quando il pino scheggiato cade, quando la bufera scroscia accecante, sferza e turbina, attraverso i rombi del tuono risuona più forte di tutto una voce - è la Paura, o Piccolo Cacciatore, è la Paura! Ora i corsi d'acqua sono incassati e profondi; ora i massi, una volta immobili, rimbalzano; ora il fulmine mostra chiaramente ogni minima nervatura delle foglie - ma la tua gola è chiusa e secca, e il tuo cuore martella contro il tuo fianco: la Paura, o Piccolo Cacciatore, è la Paura! 6. QUIQUERN. Il Popolo del Ghiaccio Orientale si scioglie come la neve, mendica caffè e zucchero, va dove l'uomo bianco va. Il Popolo del Ghiaccio Occidentale impara a rubare e a combattere, vende le sue pellicce al mercato, vende la sua anima al bianco. Il Popolo del Ghiaccio Meridionale commercia con gli equipaggi delle baleniere; le sue donne si adornano di molti nastri, ma le sue tende sono poche e stracciate. Ma gli Uomini del Ghiaccio Maggiore, oltre i confini conosciuti dall'uomo bianco, hanno lance fatte di corno di narvalo, e sono gli ultimi tra gli Uomini. - Ha aperto gli occhi. Guarda! - Mettilo di nuovo nel sacco a pelo; sarà un cane robusto: quando avrà quattro mesi gli daremo un nome. - Per chi? - chiese Amoraq. Gli occhi di Kadlu girarono tutt'intorno alla capanna di neve tappezzata di pelli, finché si posarono su Kotuko, un ragazzo di quattordici anni seduto sul pancone che serviva da letto: stava intagliando un bottone da un dente di tricheco. - Dategli un nome per me - disse Kotuko, sorridendo. - Verrà il giorno in cui mi servirà. Kadlu rispose con un altro sorriso, che gli fece quasi scomparire gli occhi nel grasso delle guance piatte, e accennò col capo ad Amoraq, mentre la fiera madre del cucciolo guaiva nel vederlo dibattersi là in alto, dove essa non poteva raggiungerlo, dentro il piccolo sacco a pelo appeso al caldo, sopra una lampada a grasso. Kotuko continuò nel suo lavoro d'intaglio, e Kadlu, buttato un fascio di finimenti canini dentro una minuscola stanzetta aperta su un fianco della casa, si tolse di dosso il pesante costume da caccia in pelle di renna e lo mise dentro una rete di stecche di balena appesa sopra un'altra lampada. Sdraiatosi poi sulla panca, si mise a rosicchiare un pezzetto di carne di foca congelata, in attesa del momento in cui Amoraq, la moglie, avrebbe portato il consueto pasto di carne bollita e di zuppa di sangue. Era uscito all'alba per andare alle grosse buche delle foche, otto miglia lontano, ed era rientrato con tre grosse foche. A metà del lungo stretto tunnel di neve che conduceva alla porta interna della casa, si sentiva un abbaiare e uno sbuffare dei cani da slitta, che, liberi dal lavoro della giornata, si azzuffavano fra loro per conquistarsi il posto più caldo. Quando i latrati divennero troppo forti, Kotuko rotolò pigramente giù dalla panca e afferrò una frusta dal manico fatto di flessibili stecche di balena e lungo tredici pollici, con una correggia pesantemente intrecciata della lunghezza di venticinque piedi. Imboccò il corridoio, dove i cani latravano come se volessero mangiarselo vivo: ma non era altro, invece, che la loro solita preghierina prima del pasto. Quando uscì carponi dall'altra estremità, una mezza dozzina di teste pelose lo seguì con lo sguardo, mentre egli si avvicinava a una specie di forca, fatta con mascelle di balena, da cui pendeva la carne per i cani; con un coltellaccio spaccò la carne congelata in grossi pezzi e restò in attesa, con la frusta in una mano e la carne nell'altra. Ogni animale veniva chiamato per nome, cominciando dai più deboli, e guai al cane che si fosse mosso quando non era il suo turno; la sferza appuntita saettava nell'aria come un fulmine, portando via almeno un pollice di pelliccia e di pelle. Ogni animale addentava ringhiando la propria razione che qualche volta gli restava nella strozza e tornava di corsa nel tunnel, mentre il ragazzo, in piedi sulla neve nella luce dell'aurora boreale, amministrava secondo giustizia. L'ultimo ad essere servito fu il grosso capo nero della muta, quello che manteneva l'ordine quando i cani erano attaccati al traino; e a lui Kotuko diede una doppia razione di carne e uno schiocco di frusta in più. - Ah! - disse Kotuko, attorcigliando la frusta. - Ne ho uno piccino piccino lassù, sopra la lucerna, che chissà come urlerà! "Sarpok"! Su, dentro! Si trascinò carponi sopra il groviglio dei cani, scosse la neve asciutta dalla sua pelliccia con la bacchetta d'osso di balena che Amoraq teneva sempre presso la porta, tamburellò sul soffitto ricoperto di pelli per far cadere i ghiaccioli formatisi dalla sovrastante cupola di neve, e si rannicchiò sulla panca. I cani nel tunnel russavano e guaivano nel sonno; il piccolo, nel caldo sacco di pelliccia di Amoraq, si dimenava come soffocato, e la madre del cucciolo dal nuovo nome se ne stava a fianco di Kotuko, con gli occhi fissi sul fagottino di pelli di foca, al caldo e al sicuro sopra la larga fiamma giallastra della lampada. E tutto questo accadeva lontano nel Nord. Oltre il Labrador, oltre lo stretto di Hudson, dove le maree sconvolgono i massi di ghiaccio, al nord della Penisola di Melville, ancor più su dei piccoli stretti di Fury e Hecla, sulla costa settentrionale della Baia di Baffin, dove l'isola di Bylot sta sopra i ghiacci dello Stretto di Lancaster come uno stampo da budino rovesciato. Poco sappiamo di quanto esiste oltre lo stretto di Lancaster, salvo il Devon del Nord e la Terra di Ellesmere; ma anche là vive un ristretto numero di abitanti sperduti, alle soglie, per così dire, del polo. Kadlu era un Inuit - quello che voi chiamate un Esquimese - e la sua tribù, una trentina di persone in tutto, apparteneva al Tununirmiut, che significa «il paese che si estende dietro qualche cosa». Sulle carte geografiche quella costa desolata è indicata come Navy Board Inlet, ma il nome di Inuit è più adatto, perché il paese è situato proprio dietro l'estremo limite del mondo. Per nove mesi dell'anno laggiù non c'è che ghiaccio e neve, e una tempesta dopo l'altra, con un freddo che chi non ha mai visto il termometro scendere fino a zero, non può nemmeno immaginare. Per sei di quei nove mesi è notte, e ciò appunto genera un tal senso di orrore. Nei tre mesi d'estate gela soltanto la notte e un giorno sì e uno no: allora la neve comincia a sciogliersi sui versanti esposti a sud; qualche salice nano mette fuori gemme lanose, qualche minuscolo semprevivo fa finta di fiorire, spiagge di ghiaia minuta e ciottoli rotondi corrono giù verso il mare libero, macigni levigati e scogli striati emergono dalla neve granulosa. Ma tutto questo scompare nel giro di poche settimane, e il selvaggio inverno riafferra la terra, mentre sul mare i ghiacci vengono spinti su e giù dalla corrente, si spezzano, si saldano, si sbattono e si frangono negli urti, stritolati e levigati fino a quando tutto congela in blocco, per una profondità di dieci piedi dalla riva fino in alto mare. In inverno Kadlu inseguiva le foche sino al limite di questi ghiacci, colpendole con la fiocina quando esse salivano dalle loro buche a respirare. La foca ha bisogno di mare aperto per vivere e per dare la caccia ai pesci, e nel cuore dell'inverno qualche volta il ghiaccio si estende ininterrottamente per ottanta miglia dalla spiaggia più vicina. In primavera Kadlu e la sua tribù si ritiravano dai campi di ghiaccio fino alle rocce, dove piantavano le loro tende di pelli, prendevano al laccio gli uccelli marini o colpivano con la fiocina le giovani foche stese al sole sulla spiaggia. Più tardi si spingevano a sud, verso la Terra di Baffin, a caccia di renne, a farsi la provvista annuale di salmone nelle centinaia di fiumi e di laghi dell'interno; per tornare poi al nord in settembre o ottobre, alla caccia del bue muschiato e alla consueta battuta invernale delle foche. Il viaggio si faceva sulle slitte trainate dai cani, venti o trenta miglia al giorno, o talvolta lungo la costa in grosse «barche per donne»: erano grosse imbarcazioni di pelle di foca, dove i cani e i bambini stavano accoccolati fra i piedi dei rematori. Le donne cantavano canzoni, mentre i canotti scivolavano da un promontorio all'altro sullo specchio dell'acqua trasparente e gelida. Tutti i lussi conosciuti dai Tununirmiut provenivano dal sud: il legno stagionato per i pattini delle slitte, gli arpioni di ferro per le fiocine, i coltelli d'acciaio, le pentole stagnate assai più adatte all'uso che non le vecchie stoviglie di coccio, le pietre focaie, gli acciarini e perfino i fiammiferi, nonché i nastri colorati per i capelli delle donne, gli specchietti di poco prezzo e il panno rosso per bordare i cappotti di pelle di renna. Kadlu vendeva i preziosi corni ritorti di avorio latteo del narvalo e i denti del bue muschiato, preziosi quanto le perle, agli Inuit del Sud, che trafficavano a loro volta con i balenieri e le missioni degli Stretti di Exeter e di Cumberland; così si svolgeva la catena, che portava magari un paiolo, ceduto da un cuoco di bordo al Bhendy Bazar, a finire i suoi giorni su una lucerna a grasso, in un qualunque punto ghiacciato del Circolo Polare Artico. Kadlu, da buon cacciatore, era ben provvisto di arpioni di ferro, di coltelli da neve, di frecce per gli uccelli e tutte le altre cose fatte per rendere più facile la vita lassù, nel paese dei ghiacci: era il capo della sua tribù o, com'essi dicevano, «l'uomo che sa tutto per esperienza». Questo non gli conferiva nessun'autorità, salvo il fatto di poter di tanto in tanto consigliare ai suoi uomini di cambiare il territorio di caccia; ma, con quell'indolenza, quella pigrizia propria dei grassi Inuit, Kotuko se ne valeva per esercitare un certo dominio sugli altri ragazzi, quando uscivano di notte per giocare alla palla al chiaro di luna o per cantare il «Canto del Fanciullo all'Aurora Boreale». Ma a quattordici anni un Inuit si sente uomo, e Kotuko era stanco di fare tagliole per le anatre selvatiche e le volpi azzurre, e più stanco che mai di aiutare le donne a masticare tutto il giorno le pelli di foca e di renna (non c'è nulla che valga a renderle soffici più di questo), mentre gli uomini erano fuori a caccia. Voleva entrare nel "quaggi", la Casa dei Canti, dove i cacciatori si riunivano per i loro riti e l'"angekok", il mago, li atterriva con deliziose magie quando, dopo aver spento i lumi, faceva risonare sul tetto i passi dello Spirito della Renna; o quando metteva fuori una fiocina, nella buia notte e la ritirava bagnata di sangue fumante. Aveva voglia di gettare i suoi grossi calzari nella rete, con l'aria stanca del capofamiglia, e prender parte al gioco dei cacciatori, quando capitavano la sera attorno a una specie di "roulette" casalinga con un piatto di stagno e un chiodo. Vi erano cento e cento cose a cui aspirava, ma gli uomini fatti ridevano di lui, dicendo: - Aspetta fino a quando sarai stato nella fibbia, Kotuko. Cacciare non vuol sempre dire acchiappare. Ora che suo padre aveva dato il nome a un cucciolo destinato a lui, le cose sembravano più allegre. Un Inuit non spreca un buon cane per suo figlio, finché questi non s'intenda un poco di guida delle slitte; e Kotuko era sicurissimo di intendersi di quello più che di ogni altra cosa. Se il cucciolo non fosse stato dotato di una costituzione di ferro, sarebbe morto per eccesso di cure e di alimentazione. Kotuko lo provvide di un finimento con briglie e lo trascinò avanti e indietro per la casa: - "Aua! Ja aua!" (A destra!). "Choiachoi! Ja choiachoi!" (A sinistra!). "Ohaaa!" (Fermo!). - Il cucciolo non si divertiva affatto, ma aveva finito col considerar quel duro addestramento una vera felicità in confronto alla prima volta in cui era stato attaccato alla slitta. Accucciato tranquillamente sulla neve, s'era messo a giocare con il guinzaglio di pelle di foca che correva dal finimento al "pitu", la grossa cinghia assicurata sulla parte anteriore della slitta. Dato il segnale di partenza, il cane aveva sentito la pesante slitta lunga dieci piedi che, gravandogli sul dorso, lo trascinava nella neve, mentre Kotuko rideva fino alle lacrime. Poi vennero giorni e giorni in cui la frusta crudele fischiava come il vento sul ghiaccio, e i compagni lo mordevano perché non sapeva fare il suo lavoro, i finimenti lo ferivano, e non gli era più concesso di dormire con Kotuko, ma doveva accontentarsi del posto più freddo nel tunnel. Fu un'epoca davvero molto triste per il cucciolo. Anche il ragazzo imparava con la stessa rapidità del cane, benché guidare una slitta da cani sia veramente una fatica bestiale. Ogni animale (il più debole accanto al conducente) è attaccato al proprio guinzaglio che passando sotto la zampa anteriore sinistra si ricollega alla cinghia principale, assicurata da una specie di bottone e d'occhiello che permette di sciogliere, con un giro di polso, un cane per volta. Questa è una vera necessità, perché i cani giovani si impigliano facilmente nel guinzaglio con le zampe posteriori, col pericolo di sentirsele segare fino all'osso. E poi, durante la corsa, ogni cane sente il bisogno di andare a ritrovare gli amici, per cui salta dentro e fuori dalle redini. Poi si azzuffano e s'impigliano peggio di una lenza bagnata che si voglia districare il giorno dopo. Molti inconvenienti possono essere evitati con l'uso scientifico della frusta. Ogni ragazzo Inuit si vanta d'essere maestro nell'uso della frusta; ma, se è facile colpire nel segno tracciato sul terreno, è difficile chinarsi in avanti e, mentre la slitta corre veloce, colpire dietro le spalle un cane indisciplinato. Se si richiama un cane mentre «fa visita» ed erroneamente se ne colpisce un altro, i due interessati subito si azzuffano fra loro, fermando il traino. E ancora, se si viaggia con un amico e si comincia a parlare o a cantare per proprio conto, i cani si fermano e, voltandosi, si accucciano per ascoltare quello che si dice. Kotuko si era lasciato sfuggire il traino un paio di volte, per aver dimenticato di bloccare la slitta nel fermarsi; ruppe così molte fruste e sciupò parecchie cinghie, prima che si potesse affidargli una muta di otto cani e la slitta leggera. Da allora si sentì una persona importante e, con cuore saldo e agile polso, fece volare la slitta fumante sul cupo specchio di ghiaccio, con la velocità di una muta in piena caccia. Andava per dieci miglia fino alle buche delle foche e poi, quando era sul terreno di caccia, soleva staccare un guinzaglio dal "pitu" e liberare il grosso cane nero, il capo, il più intelligente di tutta la muta. Appena il cane fiutava una buca, Kotuko rovesciava la slitta, piantava un paio di corna di renna - che sporgevano dallo schienale come i manici di una carrozzella - nel terreno nevoso, in modo che la muta non potesse più muoversi. Poi, proseguendo carponi pollice per pollice, aspettava che la foca venisse fuori per respirare. Allora la infilzava subito con la fiocina, a cui era attaccata una lunga lenza, riusciva a issare la foca sull'orlo del ghiaccio, e, aiutato dal cane nero sopraggiunto, la faceva scorrere sul terreno fino alla slitta. Era quello il momento in cui i cani che erano rimasti attaccati abbaiavano e urlavano in preda all'eccitazione e Kotuko li colpiva, sferzandoli sul muso con la lunga frusta, che bruciava come una sbarra rovente, fino a quando la carcassa gelata della foca era divenuta dura. Il lavoro più pesante era quello sulla via del ritorno a casa; bisognava trascinare la slitta carica sul ghiaccio aspro e i cani, invece di trainare, si accucciavano a guardar con occhi avidi la foca morta. Finalmente si decidevano ad avviarsi per la nota strada battuta che mena verso il villaggio, correndo con la testa bassa e la coda ritta, mentre Kotuko intonava l'"An-guntivaun taina tau-na-ne taina" (Il Canto del Ritorno del Cacciatore), e voci lo salutavano di casa in casa sotto il cielo velato, pieno di stelle. Anche il cane Kotuko, quando si fu fatto adulto, se la godette un mondo. Si conquistò il primo posto nel traino battendosi in campo aperto con un cane dopo l'altro, finché una bella sera, dopo il pasto, attaccò il grosso cane nero, il capo (Kotuko, il ragazzo, faceva da arbitro nella lotta) e ne fece, come si suol dire, il secondo cane. Fu promosso così alla lunga cinghia del cane guida, che corre cinque piedi avanti agli altri, con il preciso dovere di porre fine ad ogni zuffa fra i compagni, sia attaccati sia liberi, e gli fu posto un collare di fili di rame molto grosso e pesante. In occasioni speciali veniva nutrito dentro casa, con cibi cotti, e talvolta gli era concesso di dormire sulla panca di Kotuko. Era un buon cane da foche, capace di tenere a bada un bue muschiato solo correndogli intorno e ringhiandogli ai garretti. Riusciva perfino (massima prova di coraggio per un cane da slitta) a tener testa alla scarno lupo artico, l'animale delle nevi più temuto da tutti i cani nordici. Lui e il suo padrone - né l'uno né l'altro consideravano gli altri cani della muta degni della loro compagnia - cacciavano insieme per giorni e notti, il giovane avvolto nelle pellicce, il cane fulvo e selvaggio coperto dal lungo pelo, con le zanne lucenti e l'occhio stretto. Tutto il lavoro di un Inuit consiste nel procacciare cibo e pelli per sé e per la famiglia. Le donne trasformano le pelli in abiti, e, se è il caso, aiutano a tender trappole alla selvaggina minuta; ma il grosso del cibo - e gli Esquimesi mangiano enormemente - dev'essere procacciato dagli uomini. Quando le provvigioni vengono a mancare, non vi è modo di comperarne, né di chiederne, né di ottenerne a prestito. Bisogna morire. Un Inuit, però, non pensa a queste eventualità finché non vi è proprio costretto. Kadlu, Kotuko, Amoraq e il maschietto che si agitava nel cappuccio di pelo della sua mamma, masticando tutto il giorno pezzetti di grasso, erano felici insieme come ogni altra famiglia del mondo. Provenivano da una razza mite - un Inuit perde di rado la pazienza e non batte quasi mai un bambino, - non avevano mai conosciuto la menzogna, né sapevano che cosa fosse rubare. Si accontentavano di procurarsi di che vivere con la fiocina nel crudo e desolato inverno, di sorridersi l'un l'altro con un bel sorriso unto di grasso, di raccontarsi la sera storie strane di spettri, di rimpinzarsi fino a non poterne più, cantando la nenia interminabile della donne: "Amna aya, aya amna, ah, ah!" durante le lunghe giornate, al lume delle lampade, mentre riparavano le vesti e gli attrezzi da caccia. Ma furono traditi da un terribile inverno. I Tununirmiut tornarono dall'annuale pesca del salmone, e costruirono le loro capanne sul ghiaccio nuovo a nord dell'isola di Bylot, pronti per la caccia alla foca appena il mare fosse gelato. Arrivò l'autunno precoce e tempestoso: per tutto il settembre infuriarono le burrasche che infransero il ghiaccio delle foche quando era spesso soltanto 4 o 5 piedi e lo respinsero verso terra, formando una barriera, ampia una ventina di miglia, di mucchi di ghiaccio aguzzo e appuntito come un ago, su cui era impossibile far correre le slitte dei cani. L'orlo del banco di ghiaccio da cui le foche solevano pescare nell'inverno era situato forse venti miglia al di là di questa barriera, e assolutamente inaccessibile per i Tununirmiut. Anche così essi avrebbero cercato tuttavia di superare l'inverno, consumando le scorte di salmone gelato, di grasso conservato e di quello che avevano preso con le trappole; ma in dicembre uno dei loro cacciatori si imbatté nel "tupik" (tenda di pelli) di una ragazzina e tre donne mezzo morte, i cui uomini, scesi dal lontano nord, erano rimasti stritolati nei loro battellini da caccia in pelle mentre inseguivano il narvalo dalle lunghe corna. Kadlu, naturalmente, si diede cura di distribuire le donne fra le capanne del villaggio d'inverno: nessun Inuit infatti si rifiuta mai di dar da mangiare a uno straniero, poiché non sa quando giungerà il suo turno di essere costretto a mendicare. Amoraq prese la ragazza sui quattordici anni in casa sua come una specie di servetta. Dal taglio del suo cappuccio a punte e dai disegni a losanghe dei suoi calzari bianchi in pelle di renna, pensarono che potesse provenire dalla Terra di Ellesmere: non aveva mai visto i tegami stagnati da cucina né le slitte sui pattini di legno; ma sia Kotuko il ragazzo sia Kotuko il cane la presero piuttosto a benvolere. Poi tutte le volpi andarono verso il sud, e persino il ghiottone, il ladruncolo camuso e brontolone delle nevi, non si curò più di seguire la linea di trappole vuote appostate da Kotuko. La tribù perdette due dei suoi migliori cacciatori, che furono malamente storpiati in una lotta con un bue muschiato, il che portò come conseguenza maggior lavoro ai superstiti. Kotuko uscì per giorni e giorni con una slitta leggera da caccia trainata da sei o sette dei cani più forti, a farsi uscire gli occhi nella ricerca di un tratto di ghiaccio limpido, dove le foche avrebbero potuto forse scavarsi delle buche. Kotuko cane correva avanti e indietro e, nel cupo silenzio dei campi di ghiaccio, Kotuko il ragazzo sentiva il mugolio mozzo e agitato dell'animale, sopra una buca da foche a tre miglia di distanza, così chiaro come se gli fosse stato al fianco. Quando il cane trovava una buca, il ragazzo cercava di costruirsi una piccola parete di neve per proteggersi dal rigido vento, e lì rimaneva ad aspettare dieci, dodici, venti ore che la foca venisse fuori a respirare, tenendo gli occhi fissi sul piccolo segno fatto intorno alla buca per dirigere il colpo di fiocina, con un lembo di pelle sotto i piedi e le gambe legate insieme nel "tutareang" (la fibbia di cui avevano parlato i cacciatori anziani, che aiuta l'uomo a tenere le gambe immobili, mentre aspetta, aspetta e aspetta che la foca dall'udito finissimo si decida a comparire). Sebbene non vi sia in tutto questo nulla di emozionante, potete capire come il restare fermi, chiusi dalla fibbia, mentre il termometro scende fino a 40 gradi sotto zero, sia la fatica più dura che un Inuit conosca. Quando una foca era presa, il cane si slanciava, trascinandosi dietro la tirella, e aiutava il padrone a trascinare la vittima fino alla slitta, dove gli altri cani, stanchi e famelici, se ne stavano in cupa attesa al riparo di un blocco di ghiaccio. Una foca non durava molto, poiché ogni bocca nel piccolo villaggio aveva diritto ad essere sfamata, e nulla andava perduto, né ossa, né tendini, né pelle. La carne che prima si dava ai cani veniva ora consumata dagli uomini, e Amoraq sfamava la muta con pezzi di pelle delle vecchie tende d'estate, cavati dal mucchio sotto la panca che fungeva da letto; le bestie ululavano senza tregua e al risveglio riprendevano il loro grido famelico. Perfino le lampade delle capanne rivelavano che la fame era alle porte. Nelle buone stagioni, quando vi era abbondanza di grasso, la fiamma della lampada a forma di navicella era alta due piedi, allegra, oleosa e gialla. Ora arrivava a stento a sei pollici, e Amoraq badava a mozzare il lucignolo quando una fiamma non sorvegliata brillava per un attimo più viva; e allora tutti gli sguardi dei familiari si appuntavano sulla sua mano. L'orrore della carestia lassù fra i ghiacci è reso ancor più cupo per la minaccia di morire nelle tenebre. Tutti gli Inuit temono la notte che li opprime senza tregua per sei mesi dell'anno; e, quando nelle case le lampade sono basse, anche la mente degli abitanti comincia ad essere turbata e confusa. Ma doveva accader di peggio. Per notti e notti di seguito i cani mal nutriti latrarono e ringhiarono nella galleria, il muso proteso verso le stelle, fiutando il vento spietato. Quando l'ululato cessava, il silenzio si faceva completo e pesante come un cumulo di neve contro una porta e gli uomini si sentivano il sangue pulsare nelle orecchie, e il battito sordo del cuore che risonava forte come il rullar dei tamburi degli stregoni attraverso la neve. Una notte il cane Kotuko, che durante il giorno era stato insolitamente riottoso al traino, si rizzò ad un tratto e appoggiò la testa contro le ginocchia del padrone. Questi lo accarezzò, ma il cane continuò a premere contro di lui, alla cieca, come a fargli festa. Allora si destò anche Kadlu e, afferrata la grossa testa lupina dell'animale, lo fissò negli occhi vitrei: la bestia prese a guaire e a tremare fra le ginocchia di Kadlu, col pelo irto sul collo, ringhiando come se un forestiero si fosse avvicinato alla porta. Poi abbaiò festoso, rotolandosi per terra e mordicchiando lo stivale di Kotuko, come avrebbe fatto un cucciolo. - Che c'è? - chiese Kotuko, che cominciava ad aver paura. - La malattia, - rispose Kadlu - la malattia dei cani. - La bestia alzò il muso e riprese ad ululare. - Non l'ho mai visto far così. Che cosa gli succederà adesso? - domandò Kotuko. Kadlu si strinse lievemente nelle spalle e attraversò la capanna per prendere la fiocina corta. Il cane grosso lo guardò, fece un altro latrato e si avviò giù per il tunnel, mentre gli altri cani si scostavano a destra e a sinistra per lasciargli libero il passo. Quando fu fuori sulla neve, prese ad abbaiare furiosamente, come se avesse sentito la traccia di un bue muschiato, e, continuando a urlare e a saltare, fuggì via e scomparve alla vista. Non era idrofobia, la sua, ma pura e semplice pazzia. Il freddo, la fame e soprattutto l'oscurità gli avevano sconvolto la mente; quando la terribile malattia canina fa la sua comparsa in una muta, divampa come il fuoco nella foresta. Il giorno di caccia successivo il male attaccò un altro cane, subito ucciso da Kotuko, mentre si dibatteva mordendo le redini. Poi fu la volta del secondo cane nero, il capo-muta dei primi giorni, che si mise improvvisamente a rincorrere una renna immaginaria; quando fu sciolto dal "pitu", si lanciò contro un blocco di ghiaccio e fuggì via, con le briglie addosso, come già aveva fatto il suo capo. Dopo di ciò nessuno volle più condurre fuori i cani. Sarebbero stati necessari per ben altro, e i cani lo sapevano; e, pur essendo legati e nutriti dalla mano dell'uomo, avevano lo sguardo pieno di disperato terrore. A peggiorare la situazione, le vecchie cominciarono a raccontar storie di spettri e a dire di avere incontrato gli spiriti dei cacciatori morti nell'autunno, i quali avevano profetizzato ogni sorta di cose orribili. Kotuko soffrì più per la morte del suo cane che per qualunque altra causa; un Inuit, che è fortissimo mangiatore, sa anche digiunare; ma la fame, l'oscurità, il freddo e lo strapazzo gli diminuirono le forze, per cui incominciò a sentire delle voci dentro il capo e a scorgere con la coda dell'occhio figure inesistenti. Una notte, dopo aver aspettato per dieci ore all'orifizio di una buca «cieca» da foche, si era sciolto dalla fibbia e se ne tornava barcollante al villaggio sentendosi venir meno e col capo che gli girava. Si fermò per appoggiarsi ad un masso che, rotolato dall'alto, era posato in bilico su una lastra di ghiaccio, ma il peso del ragazzo tolse l'equilibrio al macigno, che precipitò giù pesantemente e, mentre Kotuko con un balzo di fianco riusciva ad evitarlo, gli scivolò dietro, stridendo e scricchiolando sul pendio gelato. Non ci voleva altro per Kotuko. Era stato allevato nella credenza che ogni roccia, ogni macigno racchiudesse uno spirito abitatore (la sua "inua") che era di solito una specie di donna monocola chiamata "tornaq", e che, se una "tornaq" vuole aiutare un uomo, rotola dietro di lui entro la casa di pietra chiedendogli se la vuole come spirito protettore. (Nel disgelo estivo i massi e le rocce prima sostenute dai ghiacci rotolano e scivolano lungo tutta la superficie, il che spiega facilmente l'idea di pietre viventi). Kotuko sentì il sangue pulsargli nelle orecchie, come gli capitava ogni giorno, ma credette che fosse la "tornaq" del macigno che veniva a parlargli. Prima di giungere a casa, egli era proprio convinto di avere avuto una lunga conversazione con lei, e siccome tutti erano propensi a crederla una cosa possibile, nessuno osò contraddirlo. - Mi ha detto: «Io salto giù, salto giù dal mio posto sulla neve» - gridava Kotuko con gli occhi accesi, curvo in avanti nella capanna semibuia. - Mi ha detto: «Voglio esserti di guida, voglio guidarti alle buone buche da foche». Domani andrò fuori e la "tornaq" mi guiderà. Entrò allora l'"angekok", il mago del villaggio, a cui Kotuko, ripeté il racconto per la seconda volta, senza scordare una sillaba. - Segui i "tornait" (gli spiriti dei massi) ed essi ci recheranno di nuovo da mangiare - disse l'"angekok". La fanciulla venuta dal nord se ne stava ormai da parecchi giorni accanto alla lampada, mangiando pochissimo e parlando meno ancora. Ma quando Amoraq e Kadlu, la mattina seguente, prepararono una piccola slitta a mano per Kotuko, caricandola il più possibile di attrezzi da caccia, di grasso di carne congelata di foca, la ragazza prese le redini e si piantò arditamente di fianco a Kotuko. - La tua casa è la mia casa - disse, e la piccola slitta dai pattini di osso diede qualche scossone dietro di loro, avviandosi nella paurosa notte artica. - La mia casa è la tua casa, - disse Kotuko - ma penso che da Sedna dobbiamo andarci tutti e due. Siccome Sedna è la Padrona del Mondo Inferiore, l'Inuit crede che ogni morto debba passare un anno nel suo orribile dominio prima di arrivare a Quadliparmiut, il Paese Felice, dove non gela mai e grosse renne sono pronte ad accorrere al semplice richiamo. Nel villaggio la gente gridava: «Le "tornait" hanno parlato a Kotuko. Gli mostreranno i ghiacci aperti, e lui ci riporterà le foche!». Le voci si perdettero ben presto nella buia gelida notte, e Kotuko e la ragazza, stretti spalla contro spalla, tirando o allentando le redini, facevano scivolare la slitta in direzione del Mare Polare. Kotuko insisteva nel dire che la "tornaq" della pietra gli aveva detto di dirigersi verso il nord, e al nord si diressero, sotto Tuktuqdjung la Renna, quella costellazione che noi chiamiamo l'Orsa Maggiore. Nessun europeo sarebbe riuscito a fare cinque miglia al giorno su quei detriti di ghiaccio tagliente; ma quei due conoscevano alla perfezione il moto da imprimere al polso per far girare una slitta intorno a un blocco di ghiaccio, lo strattone che quasi la sollevava fuor da un crepaccio, e la forza che occorre esattamente per tirare i pochi colpi di lancia capaci di aprire un varco anche nella situazione più disperata. La giovinetta non parlava, teneva il capo chino e la lunga frangia di pelo di ghiottone del suo cappuccio d'ermellino ondeggiava intorno al largo viso bruno. Sopra di loro il cielo era di un intenso nero vellutato che all'orizzonte mutava in larghe strisce di rosso d'ocra, mentre grandi stelle splendevano nel firmamento come lampioni lungo le strade. Di quando in quando un ondeggiare verdastro di Aurora Boreale attraversava l'ampia volta stellata, sventolava come una bandiera e spariva; o una meteora guizzava crepitando nelle tenebre, lasciandosi dietro una pioggia di scintille. In quell'istante scorgevano la superficie aspra e solcata del campo di ghiaccio striata di colori strani: rosso, rame, azzurrino; ma, alla consueta luce delle stelle, tutto ridiventava di un gelido grigiore. Il banco di ghiaccio, come ricorderete, era stato battuto e flagellato dalle bufere autunnali fino a sembrare un terremoto solidificato nel gelo. C'erano gole e abissi, buche scavate nel ghiaccio simili a cave di ghiaia; blocchi di vecchio ghiaccio oscuro che la tempesta aveva sospinti in basso e poi risollevati; massi di ghiaccio arrotondati; creste dentellate come seghe scavate nella neve trasportata dal vento; e depressioni di trenta, quaranta acri sotto il livello del resto del campo. Anche a breve distanza, quei massi avrebbero potuto essere scambiati per foche o trichechi, o slitte rovesciate, o spedizioni di cacciatori, o anche per il grande Fantasma dell'Orso Bianco dalle dieci zampe. Però, nonostante quelle figure fantastiche, che parevano doversi a un tratto animare, non si udiva alcun rumore e nemmeno l'eco più lieve d'un rumore. Nel grande silenzio, nell'immensa desolazione dove le aurore d'improvviso balenavano e sparivano, la slitta e i due che la tiravano strisciavano come elementi di un incubo, come l'incubo della fine del mondo ai confini del mondo. Quando erano stanchi, Kotuko costruiva quella che i cacciatori chiamano una «mezza casa», strettissima capanna di neve, dentro la quale si rannicchiavano con la lampada da viaggio, tentando di sciogliere la carne di foca congelata. Dopo il sonno riprendeva la marcia, trenta miglia al giorno per riuscire ad avanzare di dieci miglia verso nord. La fanciulla era sempre silenziosa, ma Kotuko canticchiava per suo conto, o intonava a voce spiegata i canti appresi alla Casa del Canto, canzoni dell'estate, canzoni della renna e del salmone, tutti terribilmente fuori luogo a quella stagione. Oppure dichiarava di aver sentito la "tornaq" che lo rimbrottava, e allora si slanciava contro un "hummock" agitando le braccia e parlando con voce alta e minacciosa. Per dir la verità, Kotuko in quei momenti era molto vicino al vaneggiamento; ma la fanciulla era persuasa che egli fosse guidato dal suo spirito custode, e che tutto sarebbe finito bene. Non si sorprese perciò quando, alla fine del quarto giorno di marcia, udì Kotuko dirle, con occhi fiammeggianti come palle infuocate, che la sua "tornaq" li stava seguendo attraverso la neve sotto le spoglie di un cane a due teste. La ragazza guardò nella direzione indicata da Kotuko e le parve che realmente qualche cosa scivolasse dentro un crepaccio. Non era certamente nulla di umano, ma ognuno sapeva che le "tornait" preferiscono apparire sotto forma di orsi, o di foche, o qualcosa di simile. Poteva essere persino il Fantasma dell'Orso Bianco dalle dieci zampe, avrebbe potuto essere qualsiasi cosa perché Kotuko e la sua compagna erano così sfiniti dalla fame da non poter prestar fede ai loro occhi. Non avevano preso nulla con le tagliole, e non avevano più trovato traccia di selvaggina da quando avevano lasciato il villaggio; la loro scorta di cibo non poteva più bastare per un'altra settimana, e una bufera si annunciava prossima. Una burrasca al polo può durare anche dieci giorni senza tregua, e per tutto quel tempo significa morte sicura per chi non si trova al riparo. Kotuko costruì una capanna di neve di ampiezza sufficiente per contenere la slitta (mai separarsi dai viveri) e, mentre stava squadrando l'ultimo blocco irregolare di ghiaccio che doveva far da chiave di volta del soffitto, vide una Cosa che lo stava osservando da una piccola scogliera di ghiaccio a mezzo miglio di distanza. L'aria era fosca e la Cosa appariva di circa quaranta piedi di lunghezza e dieci di altezza, con una coda lunga venti piedi e una forma dai contorni tremolanti. Anche la ragazza la vide, ma, invece di mettersi a urlare di terrore, disse tranquillamente: - Questo è Quiquern. Che cosa vorrà ancora? - Mi parlerà - rispose Kotuko; ma il coltello da neve gli tremava fra le mani mentre parlava, perché, per quanto un uomo possa ritenersi amico degli spiriti strani e mostruosi, ben di rado ama esser preso esattamente in parola. Quiquern poi è il fantasma di un cane gigante, sdentato e senza pelo che si suppone viva nel lontano nord e vada girando per le contrade quando qualcosa sta per accadere. Possono essere avvenimenti piacevoli o meno, ma neppure gli stregoni amano parlare di Quiquern, che fa impazzire i cani e, a somiglianza dell'Orso-Fantasma, ha parecchie paia di gambe in più, - sei o otto, - molte più di quante ne abbia qualunque vero cane. Kotuko e la ragazza si rannicchiarono svelti nella capanna. Naturalmente se a Quiquern fosse piaciuto, avrebbe potuto sbriciolarla sopra le loro teste; ma la sensazione di un muro di neve spessa fra loro e la tenebra orribile era per essi di grande conforto. L'uragano scoppiò con un sibilar di vento simile al fischio di un treno, e per tre giorni e tre notti continuò senza variare di un punto, senza un istante di tregua. Per settantadue lunghe ore essi alimentarono la lampada di pietra tenendola stretta fra le ginocchia e rosicchiarono la tiepida carne di foca mentre osservavano la nera fuliggine che si andava accumulando sul tetto. La ragazza fece il conto dei viveri che rimanevano ancora nella slitta; non ve n'erano più che per due giorni. Kotuko verificò la punta ferrata e le cinghie di pelle di daino del suo arpione, la lancia per le foche e le frecce per gli uccelli. Non c'era altro da fare. - Andremo a Sedna presto, prestissimo - bisbigliò la ragazza. - Fra tre giorni ci coricheremo e andremo. La tua "tornaq" non ci aiuterà? Cantale un "angekok", perché si decida a venir qui. Egli cominciò allora a cantare in tono acuto, come un uggiolio, delle canzoni magiche e l'uragano andò lentamente placandosi. A metà del canto la ragazza ebbe un sussulto e posò sul pavimento della capanna prima la mano guantata, poi il capo. Kotuko seguì il suo esempio, e i due s'inginocchiarono guardandosi fisso negli occhi, intenti ad ascoltare con ogni nervo teso. Egli staccò una sottile scheggia d'osso di balena dal bordo di una tagliola per gli uccelli posta sulla slitta, la raddrizzò e l'infilò dentro un forellino nel ghiaccio, tenendola ferma col guanto. L'aveva fissata con la delicata precisione di un ago da bussola. Ora, invece di ascoltare, si misero ad osservare. L'asta sottile oscillò un istante, col fremito più lieve del mondo: poi vibrò per pochi secondi, ritornò immobile e vibrò ancora, e questa volta in un'altra direzione. - Troppo presto! - esclamò Kotuko. - Qualche grosso banco di ghiaccio dev'essersi spezzato fuori, molto lontano. La ragazza accennò all'asticciola e scosse il capo: - E' la grande spartizione dei ghiacci - disse; - ascolta il ghiaccio sotto i nostri piedi: scricchiola. Inginocchiati, udirono questa volta, si sarebbe detto sotto i loro piedi, dei brontolii sordi, degli scricchiolii stranissimi. Talvolta sembrava il guaito di un cagnolino cieco sopra la lampada, tal altra era il rumore di un macigno arrotato sul duro ghiaccio, o come il sordo rullio di un tamburo; ma tutti i suoni erano smorzati, affievoliti, come se giungessero da grande distanza, portati da un piccolo corno. - Non andremo a Sedna distesi - disse Kotuko. - E' proprio la rottura dei ghiacci. La "tornaq" ci ha ingannati. Moriremo. Tutto questo può sembrare abbastanza assurdo, eppure i due si trovavano di fronte ad un pericolo gravissimo. I tre giorni di bufera avevano spinto verso sud le acque profonde della Baia di Baffin, ammassandole contro l'orlo del vastissimo campo di ghiaccio che dall'isola di Bylot si stende verso ovest. Inoltre, la forte corrente che fuori dallo Stretto di Lancaster si spinge verso est portando seco, per miglia e miglia, quello che viene chiamato "pack-ice" (frantumi di ghiaccio non congelati in massi compatti) bombardava il campo di ghiaccio, mentre la marea e l'impeto del mare burrascoso lo minavano e indebolivano di sotto. Quelli che Kotuko e la sua compagna avevano udito erano gli echi affievoliti della lotta, combattuta quaranta o cinquanta miglia lontano, che faceva tremare l'asticciola ammonitrice. Ora, come dice l'Inuit, quando il ghiaccio si desta dal suo lungo letargo invernale, non si sa che cosa possa accadere, perché un solido banco di ghiaccio muta d'aspetto quasi con la stessa velocità d'una nuvola. La bufera era stata evidentemente una bufera primaverile fuori stagione e tutto era possibile. Eppure, ora, i due giovinetti si sentivano più tranquilli di prima. Se il banco si spezzava, non vi sarebbe più stato né da aspettare né da soffrire. Spiriti, folletti, maghi si sarebbero mossi col ghiaccio sconvolto, ed essi avrebbero potuto trovarsi trasportati nel paese di Sedna, insieme ad ogni sorta di creature fantastiche, ancora al colmo della loro esaltazione. Quando lasciarono la capanna dopo la bufera, il frastuono all'orizzonte andava crescendo e il ghiaccio compatto gemeva e ronzava tutt'intorno a loro. - Ci aspetta ancora - disse Kotuko. Sulla cima di un "hummock" stava seduta o accucciata la Cosa a otto gambe che avevano veduto tre giorni prima e che ululava in modo spaventoso. - Seguiamola - disse la ragazza. - Può darsi che conosca qualche strada che non porta a Sedna. - Ma nel prender le redini si sentì venir meno per la debolezza. La Cosa si muoveva lentamente e goffamente attraverso le creste, dirigendosi sempre verso terra a occidente; essi la seguirono, mentre il brontolio del tuono all'estremità del banco andava facendosi sempre più vicino. Il margine del banco era frantumato con larghe fenditure in ogni direzione per tre o quattro miglia verso terra, e grossi massi di ghiaccio dallo spessore di dieci piedi e dalla superficie fino a venti acri quadrati si urtavano e accavallavano uno sopra l'altro e ricadevano sopra il banco ancora intatto, in preda alla violenza delle ondate burrascose. Questi arieti di ghiaccio costituivano, per così dire, l'avanguardia delle forze lanciate dal mare alla conquista del banco di ghiaccio. L'incessante frastuono, il rombo continuo di questi massi soffocava quasi il rumore lacerante prodotto dai lastroni di ghiaccio sospinti interi sotto il banco. Dove l'acqua era bassa, gli strati di ghiaccio si ammassavano gli uni sugli altri; l'ultimo in fondo toccava la melma a cinquanta piedi di profondità, e il mare scialbo si alzava dietro il ghiaccio fangoso finché la pressione sempre crescente sospingeva tutto in avanti. Oltre i banchi di ghiaccio, la burrasca e le correnti trascinavano in basso veri iceberg, montagne di ghiaccio galleggianti, strappati dalle coste della Groenlandia o dalla costa settentrionale della Baia di Melville. Avanzavano maestosi, con le onde che si frangevano bianche tutt'intorno, simili ad una flotta dei tempi antichi che procedesse a vele spiegate. Un iceberg che si sarebbe detto capace di spazzare il mondo intero davanti a sé, si arenava impotente nell'acqua profonda o si rovesciava e rotolava in una poltiglia di fango schiumoso e di acqua gelida, mentre un altro di dimensioni assai più ridotte spezzava il banco, vi penetrava, lanciando tonnellate di ghiaccio da ogni parte, e percorrendo poi, prima di fermarsi, una fenditura di un miglio di lunghezza. Alcuni cadevano come spade, aprendo un canale dagli argini taglienti; altri scoppiavano in una furia di blocchi del peso di molte tonnellate, che turbinavano in mezzo agli "hummocks". Altri ancora, toccato il fondo, emergevano diritti fuori dall'acqua, e parevano poi contorcersi fra gli spasimi per ripiombare pesantemente di lato, ricoperti dal mare spumeggiante. E questo inarcarsi, schiantarsi, ammassarsi e afflosciarsi del ghiaccio in tutte le forme possibili avveniva di continuo a perdita d'occhio, lungo la linea settentrionale della banchisa. Dal punto dove si trovavano Kotuko e la ragazza tutta questa confusione appariva solo come un moto ondulatorio irregolare all'orizzonte; ma giungeva fino a loro senza tregua, ed essi sentivano lontano, dalla terra, un cupo brontolio, come fosse stato il rombo delle artiglierie attraverso la nebbia. Questo significava che il banco di ghiaccio veniva ricacciato a infrangersi contro le rocce durissime dell'isola di Bylot, la terra che dietro di loro si protendeva verso il sud. - Non è mai accaduto finora - osservò Kotuko, guardando esterrefatto. - Non è questa l'epoca. Come diamine può rompersi il banco adesso? - Segui quello! - gridò la ragazza, indicando la Cosa che, zoppicando, correva disperatamente davanti a loro. La seguirono infatti, trascinando la slitta, mentre la marcia irruente del ghiaccio si andava sempre più avvicinando. Infine tutti i campi intorno si spaccarono, fendendosi in ogni direzione, e le fenditure si aprivano e si chiudevano come fauci di lupi. Ma dove la Cosa si arrestò, sopra un cumulo di vecchi blocchi ammassati alti una cinquantina di piedi, regnava l'immobilità assoluta. Kotuko si gettò avanti con impeto, trascinando con sé la compagna, e strisciò fino ai piedi del monticello. Il ghiaccio intorno a loro rumoreggiava sempre più, ma il monticello resisteva. La ragazza guardò Kotuko e lo vide alzare e stendere in fuori il gomito destro, il gesto col quale un Inuit indica la terra sotto forma di isola. Ed era appunto la terra, quella a cui la Cosa zoppicante a otto gambe li aveva guidati, un isolotto sormontato di granito e dalle coste sabbiose, così protetto, rivestito e dissimulato dal ghiaccio che nessun uomo vedendolo dalla banchina l'avrebbe individuato; ma poggiava su solida terra, non su mobile ghiaccio! Lo spezzarsi e il rimbalzare dei banchi, nell'urto contro la terra, ne aveva segnato i confini; un banco di sabbia amico, proteso verso nord, deviava il flusso del ghiaccio più greve, proprio come il vomero dissoda le zolle di terra. Sussisteva naturalmente il pericolo che un banco di ghiaccio, arrivando con impeto maggiore, spazzasse la spiaggia e arrivasse alla cima dell'isolotto distruggendolo. Ma Kotuko e la ragazza non se ne diedero pensiero quando cominciarono a costruire una capanna di neve, e, mangiando, ascoltavano il battere e il martellare del ghiaccio lungo la spiaggia. La Cosa era scomparsa, e Kotuko, rannicchiato accanto alla lampada, parlava tutto eccitato del suo potere sugli spiriti, quando, a metà del racconto, la ragazza scoppiò a ridere, dondolandosi avanti e indietro. Dietro le spalle di Kotuko, strisciando faticosamente dentro la capanna, erano comparse due teste, una gialla e una nera, appartenenti ai due cani più mortificati e vergognosi che si fossero mai visti. Uno era il cane Kotuko e l'altro il vecchio capo nero. Tutt'e due erano tornati grassi, floridi e sani di mente, ma uniti insieme nel modo più strano: vi ricorderete che, quando il capo nero era fuggito, aveva ancora i finimenti indosso evidentemente aveva incontrato il cane Kotuko, aveva giocato con lui e forse si erano azzuffati, cosicché il suo collare, impigliato nel filo di rame intrecciato nel collare di Kotuko, li aveva stretti insieme, impedendo all'uno e all'altro di addentare la tirella per proprio conto per staccarli, e costringendoli a rimanere così, uniti per il collo. Questo, aggiunto alla libertà di cacciare per conto loro, doveva averli aiutati a guarire dalla pazzia. Erano ormai perfettamente rinsaviti. La ragazza spinse i due mortificati animali verso Kotuko, e, ridendo fino alle lacrime, esclamò: - Questo è il Quiquern che ci ha guidati in salvo! Guarda le otto gambe e le due teste! Kotuko tagliò il laccio, liberandoli, e tutt'e due, il cane giallo e il cane nero, gli saltarono addosso insieme, quasi a voler dimostrare il loro ritorno alla ragione. Il ragazzo accarezzò i loro fianchi lisci e tondeggianti, e osservò sorridendo: - Hanno trovato da mangiare. Non penso che dovremo andare tanto presto a Sedna. Questi ce li ha mandati la mia "tornaq". E sono completamente guariti. Subito dopo aver fatto festa a Kotuko, le due bestie, che erano state forzate a mangiare, a dormire e a cacciare insieme durante le ultime settimane, saltarono uno alla gola dell'altra e nella capanna di neve si assisté ad una magnifica lotta. - I cani a digiuno non si battono - osservò Kotuko. - Questi hanno trovato la foca. Andiamo a dormire ora. Troveremo cibo anche noi. Quando si destarono scorsero il mare aperto sulla spiaggia settentrionale dell'isola e i ghiacci liberati sospinti tutti verso terra. Il primo rumore della risacca è fra i più deliziosi che un Inuit possa ascoltare, poiché dice che la primavera è in cammino. Kotuko e la ragazza si presero per mano e sorrisero; il sonoro, pieno fragore delle onde fra i ghiacci rammentava loro la stagione del salmone e delle renne, e il profumo dei salici in fiore. E mentre guardavano, il mare cominciò, per il freddo intenso, a solidificarsi negli spazi fra i lastroni di ghiaccio: ma all'orizzonte si scorgeva un bagliore rossastro: la luce del sole sotto l'orizzonte. Si sarebbe detto di poter udire i suoi sbadigli nel sonno, più che vederlo sorgere: quella luce durò solo pochi minuti, ma segnò il volger della stagione. Sentivano che nulla avrebbe potuto mutarne il corso. Kotuko trovò i cani che si azzuffavano per una foca uccisa di fresco, una foca che aveva inseguito i pesci sempre sconvolti dalla bufera. Quella fu la prima di venti o trenta foche che, entro quel giorno, presero terra sull'isola e, finché il mare non fu di nuovo completamente coperto da una spessa crosta di ghiaccio, si scorgevano centinaia di aguzze teste nere godersi l'acqua bassa e libera, lasciandosi trasportare dai ghiacci fluttuanti. Fu una vera gioia mangiare nuovamente fegato di foca, riempire senza economia le lampade di grasso e veder nell'aria ardere la fiamma alta tre piedi: ma appena il nuovo ghiaccio fu in grado di sostenerli, Kotuko e la ragazza caricarono la slitta e la fecero tirare dai due cani così forte come non avevano mai fatto, per arrivare presto, nel timore che qualcosa fosse accaduto nel loro villaggio. Il tempo era orribile come sempre; ma è più facile tirare una slitta carica di buon cibo che andare a caccia con la fame. Lasciarono venticinque carcasse di foche sepolte nel ghiaccio delle rive, tutte pronte per essere mangiate, e si affrettarono verso la loro gente. I cani ritrovarono la strada appena Kotuko fece loro intendere ciò che desiderava e, benché non ci fosse traccia di cartelli indicatori, in due giorni le bestie abbaiavano già fuori dalla porta di Kadlu. Solo tre cani risposero alla voce: gli altri erano stati mangiati, tutte le case era buie. Ma quando Kotuko gridò: «"Ojo!" (carne lessata)», qualche debole voce rispose e, quando il giovane fece l'appello del villaggio ad alta voce, non vi fu un solo assente. Un'ora dopo le lampade ardevano nella casa di Kadlu: l'acqua di neve si scaldava; le pentole cominciavano a sfrigolare e la neve gocciolava dal tetto, mentre Amoraq preparava un pasto per tutto il villaggio, il più piccino nel cappuccio succhiava un'abbondante fetta di grasso e i cacciatori lentamente, con metodo, si rimpinzavano a più non posso di carne di foca. Kotuko e la ragazza narrarono la loro storia. I due cani stavano in mezzo a loro, e quando sentivano pronunciare i loro nomi, rizzavano ciascuno un orecchio con l'aria più vergognosa che mai. Un cane che è stato pazzo, e poi è rinsavito - dicono gli Inuit - è immune dal pericolo di nuovi attacchi. - Così la "tornaq" non ci ha dimenticati - diceva Kotuko. - La bufera infuriava, il ghiaccio si rompeva, e la foca è arrivata inseguendo i pesci spaventati dalla bufera. E ora le nuove buche da foche non sono neppure a due giorni di strada da qui. Domani i bravi cacciatori potranno andare a prendere le foche che ho ucciso, le venticinque sepolte nel ghiaccio. Quando avremo consumato quelle, andremo tutti a caccia delle altre, sul banco di ghiaccio. - E tu, che farai? - chiese lo stregone con lo stesso tono di voce che usava parlando a Kadlu, il più ricco dei Tununirmiut. Kotuko guardò la ragazza venuta dal nord e rispose pacato: - Noi ci costruiamo una casa. Così dicendo indicò il lato nord ovest della casa di Kadlu, perché questo è il lato dove va a stare un figlio o una figlia quando si sposa. La fanciulla aprì le mani volgendo in alto le palme, con un piccolo movimento disperato del capo. Era forestiera, era stata raccolta morente di fame, non poteva portare nulla per la nuova dimora. Amoraq balzò dalla panca dov'era seduta, e cominciò ad ammucchiare roba in grembo alla fanciulla: lampade di pietra, raschiatoi di ferro per le pelli, pentole di stagno, pelli di renna intarsiate con denti di bue muschiato, veri aghi da vela, di quelli usati dai marinai, la dote più ricca che mai sia stata data al limite estremo del circolo artico; la fanciulla venuta dal Nord chinò il capo fino a terra. - Anche questi! - disse Kotuko, sorridendo e accennando ai cani, che strofinarono i loro musi gelati sulle guance della fanciulla. - Ah! - disse l'"angekok" tossicchiando con far importante, come se avesse previsto da tempo ogni cosa. - Appena Kotuko lasciò il villaggio, sono andato alla Casa del canto, a cantare canti magici. Ho cantato tutte le notti e ho evocato lo Spirito della renna. Fu il mio canto che fece scoppiare la bufera e spezzare il ghiaccio, guidando i due cani verso Kotuko, proprio quando il ghiaccio stava per rompergli le ossa. Fu il mio canto che attrasse le foche verso il ghiaccio spezzato. Il mio corpo stava immobile nel quaggi, ma il mio spirito correva sui ghiacci, guidando Kotuko e i cani in ogni loro mossa: è tutto merito mio. Siccome erano tutti ben satolli e assonnati, nessuno pensò a contraddirlo; e l'"angekok", per virtù della sua mediazione, si servì un'altra porzione di cane bollita, e si coricò per dormire accanto agli altri nella casa calda, bene illuminata, che odorava di olio. Kotuko, che sapeva disegnare molto bene alla maniera degli Inuit, graffì immagini di tutte queste avventure su una lunga striscia d'avorio piatta, forata ad un'estremità. Quando lui e la ragazza partirono per il nord verso la Terra di Ellesmere, nell'anno magnifico del Grande Inverno Libero, lasciò la storia illustrata a Kadlu, che la smarrì nella morena, quando la sua slitta trainata dai cani si ruppe, un'estate, sulla riva del lago Netilling presso Kikosiring; là la trovò un Inuit del lago la primavera seguente, e la vendette ad un tale di Imigen, che faceva l'interprete su una baleniera dello Stretto di Cumberland; costui la rivendette ad Hans Olsen, divenuto in seguito quartiermastro a bordo di un grosso vapore da turismo diretto al Capo Nord in Norvegia. Finita la stagione dei turisti, il vapore fece servizio fra Londra e l'Australia, con sosta a Ceylon, dove Olsen vendette la striscia d'avorio a un mercante di gemme cingalese, in cambio di due zaffiri falsi. Io l'ho trovata in mezzo ad altre anticaglie in una casa di Colombo, e l'ho tradotta da cima a fondo. «Angutivaun Taina». (Questa è una traduzione molto libera della canzone «Il ritorno del cacciatore» che gli uomini erano soliti cantare dopo aver trafitto la foca con la lancia. Gli Inuit ripetono sempre le stesse strofe, più e più volte). I nostri guanti sono rigidi per il sangue congelato, le nostre pellicce per la neve ammucchiata dal vento quando noi arriviamo con la foca - la foca! dal bordo della banchisa. "Au jana! Aua! Oha! Haq!" E la muta dei cani corre abbaiando, le lunghe fruste schioccano e gli uomini tornano indietro, indietro dal bordo della banchisa! Abbiamo inseguito la nostra foca fin nella sua pozza segreta, l'abbiamo sentita grattare sotto il ghiaccio, abbiamo fatto il nostro segnale e abbiamo aspettato fermi lì accanto, sul bordo della banchisa. Abbiamo lanciato la nostra fiocina quando è affiorata per respirare, l'abbiamo spinta in giù - così! l'abbiamo giocata così, e l'abbiamo uccisa così, sul bordo della banchisa. I nostri guanti sono rigidi per il sangue congelato, i nostri occhi per la neve ammucchiata dal vento, ma noi torniamo dalle nostre spose allontanandoci dal bordo della banchisa! "Au jana! Aua! Oha! Haq!" E la muta dei cani corre col suo carico, e le spose possono già sentire i loro uomini tornare dal bordo della banchisa! 7. IL CANE ROSSO. Per le nostre bianche, bellissime notti - per le notti della corsa rapida, delle belle scorrerie lontano, della caccia fortunata, dell'astuzia sicura! Per gli odori dell'alba, incorrotti, prima che la rugiada sia evaporata! Per l'assalto nella foschia e per la preda che fugge alla cieca! Per il grido dei nostri compagni quando il "sambhur" si gira e attende sulla difensiva. Per il rischio e il tumulto della notte! Per il sonno diurno all'imboccatura della tana - è la caccia, e noi andiamo a combattere. Abbaia! Abbaiate! Fu dopo l'invasione della Jungla che incominciò la parte più piacevole della vita di Mowgli. Aveva la coscienza tranquilla che viene dall'aver pagato i propri debiti; tutta la Jungla gli era amica e aveva anche un vago timore di lui. Le cose che egli fece, vide o udì vagabondando da un popolo all'altro, con o senza i suoi quattro compagni, potrebbero dar materia ad altrettanti racconti lunghi come questo. Così, non saprete mai come incontrò l'elefante pazzo di Mandla, che uccise ventidue buoi al traino di undici carri carichi di argento coniato destinati al Tesoro del Governo e sparpagliò le rupie scintillanti nella polvere; o come combatté contro Jacala, il coccodrillo, per tutta una lunga notte nelle Paludi del Nord, e come spezzò il suo acuminato coltello sulle scaglie del mostro; come trovò un coltello nuovo e più grosso appeso al collo di un uomo che era stato ucciso da un cinghiale e come si pose sulle tracce del cinghiale e lo uccise per pagare il giusto prezzo del suo coltello; come fu circondato da cervi migranti, durante la Grande Carestia, e quasi calpestato a morte dal galoppo delle mandrie infuriate: come salvò Hathi il Silenzioso dall'essere ancora catturato da una trappola con un palo acuminato sul fondo e come, il giorno seguente, cadde egli stesso in una trappola da leopardi ingegnosamente dissimulata, e come Hathi spezzò le grosse sbarre di legno che si eran richiuse su di lui; come munse le bufale selvatiche nelle paludi, e come... Ma dobbiamo raccontare una storia per volta. Papà e mamma Lupo morirono e Mowgli fece rotolare contro l'ingresso della loro tana un grosso macigno e cantò per loro il Canto della Morte; Baloo diventò molto vecchio e rigido nei movimenti e perfino Bagheera, che aveva nervi d'acciaio e muscoli di ferro, si era fatta un poco più lenta nell'uccidere. Akela, a causa dell'età, si era mutato da grigio in bianco latteo, aveva le costole sporgenti e camminava come se fosse di legno; e Mowgli uccideva per lui. Ma i lupacchiotti, i figli del disperso Branco di Seeonee, crescevano vigorosi; quando ve ne furono circa una quarantina, sui cinque anni, dalla voce sonora e dalle zampe senza pelo, privi di una guida, Akela disse loro che dovevano riunirsi insieme, sottostare alla legge e darsi un capo, come si conveniva al Popolo Libero. In questa faccenda Mowgli non era direttamente interessato, perché, com'egli stesso diceva, aveva mangiato la frutta acerba e conosceva l'albero da cui pendeva; ma quando Phao, il figlio di Phaona (suo padre, ai tempi del comando d'Akela era stato il Tracciatore Grigio), si conquistò battendosi il titolo di capo del Branco secondo la Legge della Jungla, e risuonarono di nuovo sotto le stelle i vecchi richiami e le vecchie canzoni, Mowgli, ricordando il passato, venne alla Rupe del Consiglio. Quando voleva parlare, il Branco attendeva che egli avesse finito, ed egli sedeva al fianco di Akela sulla rupe sopra Phao. Furono quelli giorni di buone cacce e di buone dormite. Nessun estraneo osava inoltrarsi nella Jungla che apparteneva al popolo di Mowgli, come chiamavano il Branco; i giovani lupi diventavano sempre più grossi e forti e vi erano molti cuccioli da portare all'Ammissione. Mowgli assisteva sempre ad un'Ammissione, ricordando la notte in cui una pantera nera aveva riscattato un nudo bimbo bruno per il branco, ed il lungo grido «Guardate guardate bene, o Lupi!» gli faceva battere il cuore. Altrimenti, se ne stava nel folto della Jungla con i suoi quattro fratelli, ad assaggiare, a toccare, a vedere e a sentire nuove cose. Una volta, al tramonto, mentre egli trotterellava senza affrettarsi attraverso la collina per portare ad Akela la metà di un capriolo che aveva ucciso, e i Quattro gli giocavano alle spalle ruzzando e rotolandosi l'uno sull'altro per dare sfogo alla loro gioia di vivere, Mowgli udì un grido che non aveva mai più udito dai tristi tempi di Shere Khan. Era ciò che nella Jungla viene chiamato il "pheeal", una specie di grido sinistro che lancia lo sciacallo, quando caccia al seguito di una tigre o quando vi è una grossa preda in vista. Se riuscite a immaginare un misto di odio, di trionfo, di paura, di disperazione con una stridula nota di scherno, potrete farvi una pallida idea del "pheeal", che si levò, ricadde, ondeggiò e si ripercosse lontano attraverso la Waingunga. I Quattro si fermarono immediatamente ringhiando col pelo irto. La mano di Mowgli si portò al coltello e si arrestò di botto, col sangue al viso e le sopracciglia aggrottate. - Non c'è nessuno Striato che osi venire a cacciare qui - disse. - Questo non è il grido del Battistrada - rispose Fratello Bigio. - Si tratta di qualche grossa preda. Ascolta! Il grido proruppe di nuovo, mezzo singhiozzo e mezzo sghignazzamento, proprio come se lo sciacallo possedesse labbra mobili come quelle dell'uomo. Allora Mowgli aspirò profondamente e corse verso la Rupe del Consiglio, raggiungendo per via i lupi del Branco che si affrettavano anch'essi a quella volta. Phao e Akela erano insieme sulla Rupe e, sotto di essi, con i nervi tesi, stavano tutti gli altri. Le Madri e i cuccioli si affrettavano verso le loro tane, perché, quando si sente l'urlo del "pheeal", non è il momento per i deboli di starsene in giro. Non udivano altro che la Waingunga scorrere e gorgogliare nell'oscurità ed il vento leggero della sera che scherzava tra le cime degli alberi, finché si levò improvviso il richiamo di un lupo al di là del fiume. Non era un lupo del Branco, perché il Branco era tutto riunito alla Rupe. Il grido si cambiò in un lungo abbaiare disperato e «"Dhole!"» diceva «"Dhole! Dhole! Dhole!"». Poi, sulla roccia, si udì un passo stanco, ed un lupo magro, dai fianchi striati di sangue, con la zampa anteriore destra inservibile e le mascelle bianche di bava, balzò in mezzo al cerchio e si accucciò ansimando ai piedi di Mowgli. - Buona caccia! A che Branco appartieni? - chiese Phao con gravità. - Buona caccia! Sono un "Won-tolla" - fu la risposta. Voleva dire che egli era un lupo solitario, che si guadagnava la vita per sé, la femmina e i cuccioli in qualche caverna isolata, come accade spesso fra i lupi del sud. "Won-tolla" vuol dire forestiero, un lupo che vive fuori da qualsiasi Branco. Continuava ad ansimare e si potevano scorgere i battiti del cuore che lo scuotevano dalla testa ai piedi. - Che cosa si muove? - chiese Phao. E' la domanda che tutta la Jungla si pone dopo che si è udito il "pheeal". - Il "dhole", il "dhole" del Dekkan... il Cane Rosso, l'Uccisore! Salgono verso il nord dal sud, dicendo che il Dekkan è vuoto e massacrando tutto sul loro cammino. Alla luna nuova ne avevo quattro con me, la mia femmina e tre cuccioli; essa stava insegnando loro come si uccide su pianure erbose, nascondendosi per levare il capriolo, come si usa fra noi che viviamo nelle praterie. A mezzanotte udii che erano ancora insieme, abbaiando rumorosamente sulla traccia; alla brezza dell'alba li trovai irrigiditi nell'erba, in quattro, Popolo Libero, erano quattro all'ultimo novilunio! Allora invocai il Diritto del Sangue e trovai i "dhole". - Quanti erano? - chiese rapido Mowgli, mentre il Branco faceva udire un ringhio sordo. - Non so. Tre di essi non potranno più uccidere, ma alla fine mi hanno inseguito come un capriolo; su queste tre gambe mi hanno inseguito. Guardate, Popolo Libero! - e sporse innanzi la sua zampa mutilata, nera di sangue rappreso. Portava i segni di terribili morsi sui fianchi ed aveva il collo straziato e lacerato. - Mangia - disse Akela, lasciando la carne che Mowgli aveva portato per lui, e lo Straniero vi si gettò sopra. - Quest'offerta non andrà perduta - aggiunse umilmente quando ebbe calmato i morsi della fame. - Datemi un po' di forza, Popolo Libero, e anch'io ucciderò. La mia tana, che era piena al tempo del novilunio, è ora vuota e il Debito del Sangue non è ancora pagato sino in fondo. Phao udì i suoi denti sgretolare un femore e ringhiò approvando. - Avremo bisogno di quelle mascelle - disse. - I cuccioli dei "dhole" erano con loro? - No, no; tutti Cacciatori Rossi: tutti cani adulti di quel Branco, forti e massicci, sebbene nel Dekkan non si nutrano che di lucertole. Ciò che "Won-tolla" aveva narrato significava che i "dhole", i cani rossi cacciatori del Dekkan, avevano migrato per uccidere, e il Branco sapeva bene che perfino la tigre è disposta a cedere al "dhole" una preda appena abbattuta. Caricano furiosamente attraverso la Jungla, abbattendo e facendo a pezzi tutto ciò che incontrano. Sebbene non siano così grossi e neppure così astuti come un lupo, sono molto forti e numerosissimi. I "dhole", per esempio, non cominciano a chiamarsi Branco se non sono almeno un centinaio di cani grossi; mentre quaranta lupi costituiscono già un Branco rispettabile. Le scorribande di Mowgli lo avevano portato una volta al limite delle alte colline erbose del Dekkan, ed egli aveva visto i "dhole" dormire senza timore, giocare e grattarsi nelle buche o nelle macchie che servono loro da tana. Li disprezzava e li odiava, perché avevano lo stesso odore del Popolo Libero, perché non vivevano in caverne, ma soprattutto perché avevano del pelo fra le dita dei piedi, mentre lui e i suoi amici avevano estremità senz'ombra di pelo. Ma sapeva, perché glielo aveva detto Hathi, che cosa terribile sia un branco di "dhole" in caccia. Perfino Hathi cede loro il campo, perché essi continuano ad avanzare finché non siano tutti morti o finché la selvaggina non venga a mancare. Anche Akela doveva sapere qualcosa a proposito dei "dhole", perché disse con calma a Mowgli: - Meglio morire in mezzo al Branco, che solo e senza capo. Questa è una buona caccia e... sarà anche la mia ultima. Ma, poiché gli uomini vivono a lungo, tu hai molte notti e molti giorni davanti a te, Fratellino. Va' verso il nord e nasconditi e, se qualcuno di noi sarà ancora vivo dopo il passaggio dei "dhole", ti porterà notizia della battaglia. - Ah, - disse Mowgli, con molta gravità - devo dunque andare a vivere tra le paludi, prendendo pesciolini e dormendo su un albero, o devo chiedere aiuto ai "bandar-log" e sgranocchiare noci, mentre il Branco combatte sotto di me? - E' una battaglia mortale - rispose Akela. - Non hai mai incontrato un "dhole"... L'Uccisore Rosso. Perfino lo Striato... - "Aowa, aowa!" - tagliò corto Mowgli un po' seccato. - Io l'ho uccisa una scimmia striata e sono in cuor mio sicuro che Shere Khan avrebbe lasciata in pasto ai "dhole" la sua compagna, se avesse fiutato un branco di essi al di là di tre file di montagne. Ascoltami, ora: c'era un lupo, mio padre, e c'era una lupa, mia madre; e c'era un vecchio lupo grigio (e non molto saggio: ora è incanutito) che era per me padre e madre. Per questo io... - ed alzò la voce - io ti dico che quando verranno i "dhole", se verranno, Mowgli ed il Popolo Libero sono di una stessa razza di fronte a questa caccia; e ti dico, per il Toro che mi ha riscattato - per il Toro che Bagheera pagò per me nei giorni antichi che voi Branco avete dimenticato - io ti dico questo, e lo ricordino gli Alberi e il Fiume se io me ne dimentico, dico che questo coltello sarà come un dente per il Branco.. e mi pare che sia abbastanza tagliente. Questa è la Parola ch'io ho dato - Tu non conosci i "dhole", uomo con voce di lupo - disse "Won-tolla". - Io penso solo a pagare il Debito del Sangue con loro, prima che mi abbiano fatto a pezzi. Avanzano lentamente, uccidendo tutto quello che trovano; fra due giorni mi saranno tornate un po' le forze ed io ritornerò per saldare il Debito del Sangue. Ma per voi, Popolo Libero, il mio consiglio è che ve ne andiate verso il nord e vi accontentiate anche di mangiar poco, finché i "dhole" non se ne siano andati. Non c'è nulla da guadagnare, in questa caccia. - Sentite lo Straniero! - disse Mowgli ridendo. - Popolo Libero, dobbiamo andare verso il nord e mangiare topi e lucertole sugli argini per paura di incontrare i "dhole". Esso deve impadronirsi del nostro territorio di caccia, mentre noi ce ne staremo nascosti nel nord finché non gli piacerà restituirci quanto ci appartiene. Per un cane! Il figlio di un cane rosso, con il ventre giallo, che non ha peli sul dorso e li ha tra le dita dei piedi! Un cane, che conta i suoi cuccioli a sei e a otto per volta, come quelli Chinkai, il piccolo topo saltatore. Dobbiamo davvero scappare, Popolo Libero, ed elemosinare dai popoli del nord i resti delle loro prede morte! Conoscete il proverbio: «al nord stanno i topi, al sud i pidocchi. Noi siamo della Jungla». Scegliete, scegliete dunque! Questa è una buona caccia! Per il Branco, per tutto il Branco, per la tana e per la covata, per la caccia di dentro e di fuori; per il maschio che guida la compagna e il cucciolo, il piccolo cucciolo nella tana: è deciso! è deciso! è deciso! daremo battaglia! Il branco rispose con un ululato profondo e lacerante, che risuonò nella notte come un grosso albero che crolla al suolo. - E' deciso! Ci batteremo! - fu l'urlo di tutti. - State con loro - disse Mowgli ai Quattro. - Avremo bisogno di ogni dente. Phao e Akela faranno i preparativi per la battaglia. Io vado a contare i cani. - Sarà la tua morte! - esclamò "Won-tolla", levandosi a mezzo. - Che cosa può fare un solo essere senza pelo contro il Cane Rosso? Perfino lo Striato, ricordati... - E' evidente che sei uno Straniero - disse Mowgli per tutta risposta; - ma ne riparleremo quando i "dhole" saranno morti. Buona caccia a tutti! Si dileguò nell'oscurità, vibrante di eccitazione, guardando appena dove metteva i piedi, e la conseguenza fu che inciampò e cadde lungo e disteso sulle immense spire di Kaa, il pitone, che stava in agguato presso il fiume, sulla traccia dei cervi. - "Kssha!" - disse Kaa indispettito. - E' degno di uno della Jungla andare in giro calpestando e inciampando, e rovinare così la caccia di un'intera notte... specie quando prometteva così bene? - La colpa è mia - disse Mowgli rialzandosi. - Ero proprio in cerca di te, Testa Piatta, ma ogni volta che ti incontro tu sei più lungo e più grosso di un mio braccio. Nella Jungla non vi è nessun saggio, vecchio o forte come te, o bellissimo Kaa! - Dove vuoi parare con questi complimenti? - la voce di Kaa si fece più cortese. - Non più di una luna fa c'era un Omettino con un coltello che mi lanciava sassi sulla testa e mi provocava con insulti degni di un gatto selvatico, perché dormivo all'aperto. - Già, e mi facevi scappare i cervi ai quattro venti, mentre Mowgli era in caccia; e quello stesso Testa Piatta era troppo sordo per udire il fischio di Mowgli e lasciare strada libera ai cervi - rispose Mowgli senza scomporsi, sedendosi tra le spire colorate. - Ora quello stesso Omettino viene con paroline melate e adulatrici da questo Testa Piatta, dicendogli che è bello e forte e saggio; e questo vecchio Testa Piatta ci crede e fa posto, così, a quello stesso Omettino che lanciava sassi e... Stai comodo, ora? Bagheera ti potrebbe offrire un posto di riposo più gradevole di questo? Kaa aveva, come al solito, formato sotto il corpo di Mowgli una specie di comoda amaca con le sue spire. Il ragazzo lo raggiunse nell'oscurità e attirò a sé il morbido collo, flessibile come un cavo, finché la testa di Kaa riposò sulla sua spalla: allora gli raccontò tutto ciò che era avvenuto nella Jungla quella notte. - Sarò forse saggio - osservò Kaa alla fine - ma sordo lo sono di certo; altrimenti avrei udito anch'io il "pheeal". Ora mi spiego perché i Mangiatori d'Erba sono inquieti. Quanti sono i "dhole"? - Non li ho ancora visti. Sono corso subito da te. Sei più vecchio di Hathi. Ma, Kaa, - e qui Mowgli ebbe un fremito di gioia - sarà una bella caccia. Pochi di noi vedranno la prossima luna. - Perché vuoi immischiarti in questa faccenda? Ricordati che sei un Uomo e ricordati che il Branco ti ha scacciato. Lascia che il Lupo si batta contro il Cane. Tu sei un Uomo. - Le noci dell'anno scorso non son più che un pugno di polvere nera, quest'anno - Mowgli rispose. - E' vero che sono un Uomo, ma sapevo quel che dicevo quando ho dichiarato di essere un Lupo. Ho chiamato a testimoni gli Alberi ed il Fiume. Io appartengo al Popolo Libero, Kaa, fino a quando i "dhole" se ne saranno andati. - Popolo Libero! - borbottò Kaa. - Ladri liberi! E tu ti sei cacciato nelle spire della morte per onorare la memoria di lupi che sono morti? Questa non è buona caccia! - E' la mia Parola, quella che ho data: la conoscono gli Alberi, la conosce il Fiume. Non mi riprenderò la mia Parola, finché i dhole non se ne saranno andati. - "Ngssh!" Quand'è così, la cosa cambia aspetto. Avevo pensato di condurti con me verso le paludi del nord, ma la Parola, anche quella di un piccolo, nudo Omettino senza pelo, è la Parola. Ora io, Kaa, ti dico... - Rifletti bene, Testa Piatta, prima di legarti anche tu col nodo della morte. Non mi occorre una Parola da te, perché so benissimo... - E sia, allora - rispose Kaa. - Non ti darò la mia Parola; ma che cosa hai intenzione di fare quando arriveranno i "dhole"? - Devono passare a nuoto la Waingunga. Pensavo di affrontarli nelle secche col mio coltello, spalleggiato dal Branco; e così, a coltellate e a morsi, potremmo farli deviare lungo la corrente o, almeno, rinfrescare un po' le loro gole. - I "dhole" non si sviano dal loro cammino e le loro fauci sono ardenti - rispose Kaa. - Non rimarranno né l'Ometto né cuccioli di Lupo, quando la caccia sarà finita, ma solo ossa spolpate. - "Alala!" Se dovremo morire, morremo e sarà una caccia magnifica; ma il mio cuore è giovane, e non ho ancora veduto molte stagioni di Piogge; non sono né saggio né forte. Hai un progetto migliore, Kaa? - Ho visto centinaia e centinaia di stagioni di Piogge. Prima che Hathi cambiasse le zanne da latte, il segno che lasciavo nella polvere era già grosso. Per il Primo Uovo, sono più vecchio di molti alberi ed ho visto tutto ciò che ha fatto la Jungla. - Ma questa è una nuova caccia - disse Mowgli. - I "dhole" non sono mai venuti prima d'ora a intralciare la nostra caccia. - Tutto ciò che accade è già accaduto. Ciò che sarà non è altro che un anno dimenticato che ritorna indietro. Stai tranquillo, mentre io faccio il calcolo dei miei anni. Per una lunga ora Mowgli se ne stette fra le spire, mentre Kaa, con la testa immobile sul terreno, pensava a tutto ciò che aveva visto e imparato dal giorno in cui era uscito dall'uovo. Sembrava che la luce abbandonasse i suoi occhi rendendoli simili ad opali malate; di tanto in tanto egli assestava piccoli colpi con la testa a destra o a sinistra, come se stesse cacciando durante il sonno. Mowgli sonnecchiava tranquillo, perché sapeva che nulla val meglio del sonno prima della caccia ed era abituato a prendere sonno in qualsiasi ora del giorno e della notte. Poi sentì che il corpo di Kaa diveniva più grosso e più largo sotto di lui, mentre l'immenso pitone si gonfiava, sibilando, col rumore di una sciabola sfoderata da una guaina d'acciaio. - Ho visto ripassarmi dinanzi tutte le stagioni morte - disse Kaa finalmente - e gli alberi grandi ed i vecchi elefanti, e le rocce che erano nude e aguzze, prima che vi crescesse il muschio. Sei ancora vivo, Omettino? - Ma è appena calata la luna - rispose Mowgli. - Non capisco... - "Hsssh!" Sono di nuovo Kaa. Sapevo che non era passato che poco tempo. Ora ce ne andremo al fiume e ti mostrerò che cosa si deve fare contro i "dhole". Si volse, diritto come una freccia, verso la corrente principale della Waingunga, tuffandosi un po' sopra la pozza che nascondeva la Rupe della Pace; Mowgli era al suo fianco. - No, non nuotare. Io vado velocemente. In groppa, Fratellino. Mowgli cinse il collo di Kaa col suo braccio sinistro, lasciò cadere il destro aderente al corpo e allungò i piedi. Allora Kaa risalì la corrente, come lui solo sapeva fare, e l'acqua dell'onda tagliata formò come una trina di schiuma attorno al collo di Mowgli, mentre i suoi piedi ondeggiavano qua e là nel gorgo formato dai fianchi sferzanti del pitone. Un miglio o due sopra la Rupe della Pace la Waingunga si restringe in una gola di rocce marmoree alte tra gli ottanta e i cento piedi e la corrente si ingolfa come in un canale da mulino in mezzo e sopra ad ogni sorta di scogli e di sporgenze. Ma Mowgli non si dava pensiero dell'acqua; ben poca acqua al mondo avrebbe potuto dargli un attimo di paura. Stava esaminando la gola da entrambi i lati e annusando l'aria inquieto, perché si sentiva un odore dolce e agro, molto simile a quello che esala da un grosso formicaio in una giornata calda. Istintivamente si abbassò nell'acqua, levando di tanto in tanto il capo per respirare, e Kaa si ancorò con un doppio giro di coda ad una roccia sommersa, trattenendo Mowgli nell'incavo di una spira, mentre l'acqua correva impetuosa. - Questo è il Luogo della Morte - disse il ragazzo. - Perché siamo venuti qui? - Dormono - rispose Kaa. - Hathi non cede il passo allo Striato. Ma Hathi e lo Striato insieme lo cederebbero ai "dhole", e i "dhole" non indietreggiano di fronte a nulla. Eppure, di fronte a chi indietreggerebbe il Piccolo Popolo delle Rocce? Dimmi, Padrone della Jungla, chi è il Padrone della Jungla? - Questo - sussurrò Mowgli. - Questo è il Luogo della Morte. Andiamocene. - No, osserva bene, perché ora dormono. Nulla è cambiato da quando io non ero più lungo del tuo braccio. Le rocce sgretolate e corrose della gola della Waingunga erano state usate, fin dall'inizio della Jungla, come dimora del Piccolo Popolo delle Rocce, le operose, furiose e selvagge api nere dell'India; e, come Mowgli sapeva bene, tutte le tracce deviavano un buon mezzo miglio prima di arrivare alla gola. Per secoli il Piccolo Popolo aveva costruito i suoi alveari ed aveva sciamato più e più volte di fessura in fessura, incrostando il bianco marmo con miele secco e costruendo le celle dei favi alte e profonde nelle oscure cavità dell'interno, dove né uomini, né bestie, né acqua, né fuoco le avevano mai raggiunte. La gola, in tutta la sua lunghezza, era coperta su ambo i lati come da cortine scintillanti di velluto nero; Mowgli, vedendole, si tuffò nell'acqua, perché quelli erano i grappoli di milioni di api dormienti. C'erano poi ammassi e festoni e altre forme attaccate alla superficie della roccia che parevano tronchi d'albero imputriditi, ed erano i vecchi favi degli anni precedenti o nuove colonie costruite nell'ombra della gola riparata dai venti; grossi cumuli di detriti spugnosi e infraciditi erano rotolati giù, finendo tra gli alberi e le liane che si abbarbicavano alla superficie rocciosa. Tendendo l'orecchio, Mowgli sentì più di una volta il fruscio di un favo carico di miele che scivolava e si rovesciava da qualche parte nelle gallerie scure; poi il ronzare di ali irritate e il monotono gocciolare del miele perduto che continuava finché esso aveva raggiunto una superficie all'aperto da cui prendeva pigramente a scolare sugli arbusti. Su una riva del fiume vi era una spiaggetta piccolissima, non più larga di cinque piedi dove si erano accumulati i rifiuti di un numero incalcolabile d'anni. C'erano api morte, fuchi, detriti e vecchi favi, ali di falene ladre che si erano sperdute fin là in cerca di miele, il tutto ammucchiato in montagnole di finissima polvere nera. Soltanto l'acuto odore che ne emanava bastava ad intimorire ogni essere che non avesse ali e che conoscesse che cos'era il Piccolo Popolo. Kaa risalì di nuovo la corrente, finché giunse ad un banco sabbioso al limite della gola. - Ecco le vittime di questa stagione - disse. - Guarda! Sul banco giacevano gli scheletri di una coppia di giovani cervi e di un bufalo. Mowgli constatò che le loro ossa non erano state toccate né da un lupo, né da uno sciacallo, perché erano composte naturalmente. - Hanno oltrepassato la linea, questi; non conoscevano la Legge - mormorò Mowgli - ed il Piccolo Popolo li ha uccisi. Andiamo prima che si sveglino. - Non si sveglieranno prima dell'alba - rispose Kaa. - Ora ti racconterò qualche cosa. Un capriolo inseguito, che proveniva dal sud, molte e molte stagioni di Pioggia fa, si spinse qui; era inseguito da un Branco e non conosceva la Jungla. Accecato dalla paura, balzò dall'alto, mentre il Branco lo inseguiva da vicino inferocito e reso cieco esso pure dalla caccia. Il sole era alto e il Piccolo Popolo era numeroso e molto irritato. Molti furono quelli del Branco che balzarono nella Waingunga, ma furono uccisi prima ancora che toccassero l'acqua. Quelli che non erano balzati morirono essi pure sulle rocce soprastanti. Ma il capriolo sopravvisse. - E come? - Perché era giunto per primo, correndo per salvar la vita, ed era balzato nell'acqua prima che il Piccolo Popolo si destasse, ed era già nel fiume prima che esso si riunisse per uccidere. Il Branco, che veniva dopo, fu invece tutto perduto, sotto il peso del Piccolo Popolo. - E il capriolo sopravvisse? - ripeté Mowgli lentamente. - Almeno, non morì ALLORA, sebbene non ci fosse ad aspettarlo nella sua discesa lungo il torrente un corpo robusto per trattenerlo, come farebbe un certo grasso, giallo, vecchio Testa Piatta per un Omettino... sì, anche se ci fossero tutti i "dhole" del Dekkan sulla sua traccia. Che cos'hai in mente? Il capo di Kaa era vicinissimo all'orecchio di Mowgli. Passò un momento prima che il ragazzo rispondesse. - E' proprio come tirare i baffi alla Morte; ma... Kaa, sei davvero il più saggio della Jungla. - Molti lo hanno detto. Ora sta' attento; se sei inseguito dai "dhole"... - Mi inseguiranno certamente. Ah! Ah! Io ho molte spine pungenti sotto la lingua da conficcar loro nel pelo. - Se ti seguono dappresso, accalorati e accecati dall'ira, e non vedono altro che le tue spalle, quelli che non muoiono lassù si butteranno in acqua, o qui, o un po' più a valle, perché il Piccolo Popolo si solleverà e li ricoprirà. La Waingunga, poi, è una corrente affamata e non vi sarà Kaa a fermare la loro corsa, ma dovranno andar giù, quelli che sopravvivono, sino alle Tane di Seeonee e là il tuo Branco li potrà afferrare per la gola. - "Ahai! Eowawa!" E' più bello delle piogge nella stagione asciutta. Ora c'è solo la piccola faccenda della corsa e del salto. Mi farò conoscere dai "dhole", in modo tale che mi inseguiranno alle calcagna. - Hai osservato bene le rocce sopra di te? Dalla parte della terra? - A dire il vero, no. L'avevo dimenticato. - Va' a vedere: è un terreno rotto e ineguale, pieno di buche. Uno dei tuoi grossi piedi posato inavvertitamente metterebbe subito fine alla caccia. Guarda, io ti lascio qui e solo per amor tuo andrò ad avvertire il Branco, perché sappia dove attendere i "dhole". Per conto mio, io non sono della medesima razza di nessun lupo. Quando Kaa non gradiva una relazione, nessuno poteva rendersi più antipatico di lui nella Jungla, eccettuata, forse, Bagheera. Ridiscese a nuoto la corrente e, di fronte alla Rupe, incontrò Phao e Akela che tendevano l'orecchio ai rumori della notte. - "Hsssh!" Cani, - disse giovialmente - i "dhole" verranno giù portati dalla corrente. Se non avete paura, potete ucciderli nelle secche. - Quando verranno? - chiese Phao. - E dov'è il mio Cucciolo d'Uomo? - aggiunse Akela. - Verranno quando verranno - rispose Kaa. - State ad aspettarli. Quanto al TUO Cucciolo d'Uomo, dal quale hai accettato una Parola esponendolo così alla Morte, il TUO Cucciolo è con ME, e se non è ancora morto, non è merito tuo, cane sbiancato! Aspetta qui i "dhole" e rallegrati, ché il Cucciolo d'Uomo e io combattiamo dalla tua parte. Kaa risalì di nuovo la corrente e si arrestò in mezzo alla gola, esplorando con lo sguardo la linea degli scogli. Ad un tratto scorse il capo di Mowgli che si muoveva contro le stelle; poi si udì un fruscio nell'aria e il colpo nitido e secco di un corpo che piomba sui piedi, e un attimo dopo il ragazzo era tornato a riposarsi tra le spire del corpo di Kaa. - Non è un salto difficile di notte - osservò tranquillo Mowgli; - ho saltato due volte per puro divertimento, ma lassù è un posto maledetto: cespugli bassi e fessure molto profonde, tutti pieni del Piccolo Popolo. Ho messo delle grosse pietre una sull'altra accanto a tre fessure. Le farò rotolare giù coi piedi, correndo, e il Piccolo Popolo si solleverà irritatissimo, alle mie spalle. - Questo è un discorso da Uomo, e da Uomo astuto - commentò Kaa. - Tu sei furbo, ma il Piccolo Popolo è sempre in stato di irritazione. - No, al crepuscolo tutte le ali vicine e lontane si concedono un po' di riposo. La partita con i "dhole" la impegnerò al crepuscolo, perché i "dhole" combattono meglio di giorno. Essi stanno ora seguendo la traccia sanguinosa di "Won-tolla". - Come Chil non abbandona un bue morto, così i "dhole" non abbandonano una traccia di sangue. - Allora io farò loro una nuova traccia di sangue, possibilmente del loro stesso sangue, e darò loro da mangiare della polvere. Vuoi rimanere qui, Kaa, fino a quando io sarò di ritorno con i "dhole"? - Sì, ma... che sarà se ti ammazzeranno nella Jungla o se il Piccolo Popolo ti ucciderà prima che tu possa tuffarti nel fiume? - Quando sarà domani, ammazzeremo per domani - disse Mowgli, citando un proverbio della Jungla; ed aggiunse: - Quando sarò morto, allora mi canterai il Canto della Morte. Buona caccia, Kaa! Sciolse il braccio dal collo del pitone, e scivolò giù per la gola, come un tronco abbandonato alla corrente, dirigendosi verso la riva lontana, dove la corrente era meno veloce, e rise forte dalla gran contentezza. Non vi era nulla che Mowgli gustasse tanto, com'egli stesso diceva, quanto «tirare i baffi alla Morte» e mostrare alla Jungla che egli era il Signore di tutto. Aveva sovente, con l'aiuto di Baloo, saccheggiato i nidi delle api negli alberi isolati, e sapeva che il Piccolo Popolo odiava l'odore dell'aglio selvatico. Così ne raccolse un mazzetto e lo legò con una striscia di corteccia; quindi si mise a seguire la traccia di sangue di Won-tolla che dalle tane si volgeva verso il sud, per circa cinque miglia, volgendosi a guardare gli alberi. - Io sono stato Mowgli, il Ranocchio - disse tra sé. - Poi ho dichiarato che sono Mowgli il Lupo. Ora devo essere Mowgli la Scimmia, prima di essere Mowgli il Capriolo. Alla fine sarò Mowgli l'Uomo. Oh! - e fece scorrere il pollice lungo la lama affilata del suo coltello. La traccia di Won-tolla, tutta segnata di macchie di sangue nerastro, correva sotto un bosco folto di grossi alberi e si perdeva verso nord- est, diventando sempre più sottile fino a circa due miglia dalle Rocce delle Api. Dall'ultimo albero fino ai bassi cespugli delle Rocce delle Api il terreno era sgombro e a mala pena avrebbe potuto nascondervisi un lupo. Mowgli corse leggero sotto gli alberi, calcolando la distanza da un ramo all'altro, arrampicandosi di quando in quando su di un tronco e spiccando salti di assaggio dall'uno all'altro albero; finché giunse al terreno scoperto che studiò con grande attenzione per un'ora. Poi tornò indietro, raggiunse la traccia di Won-tolla nel punto in cui l'aveva abbandonata, si accomodò sopra un albero che aveva un ramo sporgente a circa otto piedi dal suolo, e sedette affilando il suo coltello sulla pianta dei piedi e canterellando. Poco prima di mezzogiorno, quando il sole era molto caldo, udì uno scalpitio di zampe e percepì l'odore disgustoso del Branco dei "dhole", mentre questo correva senza pietà sulla traccia di Won-tolla. Visto dall'alto, il cane rosso non sembra grosso nemmeno la metà di un lupo, ma Mowgli sapeva quanto forti fossero quelle zampe e quelle mascelle. Osservò il muso appuntito del capo-branco, che fiutava la traccia, e gli gridò: - Buona caccia! La bestia guardò in su ed i suoi compagni si fermarono dietro di lui, torme e torme di cani rossi, con la coda penzoloni, le spalle pesanti, la groppa sottile e la bocca sanguigna. I "dhole" sono animali molto silenziosi, di solito, e sono poco avvicinabili anche nella loro jungla. Non meno di duecento dovevano essere radunati sotto Mowgli, ma egli vedeva che i capi fiutavano avidamente la traccia di Won-tolla, e cercavano di spingere innanzi il branco. Questo non doveva accadere, altrimenti essi sarebbero giunti alle tane nella piena luce del giorno, e Mowgli intendeva trattenerli sotto l'albero fino al cader della notte. - Chi vi ha dato il permesso di venire sin qui? - chiese. - Tutte le jungle sono nostre - fu la risposta, e il "dhole" che la diede mise in mostra i suoi denti bianchi. Mowgli guardò in giù con un sorriso, e imitò alla perfezione l'acuto squittio di Chikai, il topo saltatore del Dekkan, per far intendere ai "dhole" ch'egli non li considerava da più di Chikai. Il Branco si strinse attorno al tronco dell'albero, e il suo capo abbaiò rabbiosamente, chiamando Mowgli scimmia degli alberi. Per tutta risposta Mowgli lasciò penzolare una gamba e agitò le dita nude dei piedi proprio sul muso del capo. Ce n'era più che a sufficienza per mettere il Branco in uno stato di furore insensato. Quelli che hanno il pelo tra le dita dei piedi non gradiscono sentirselo ricordare. Mowgli ritrasse il piede mentre il capo del Branco faceva un balzo e gli disse amabilmente: - Cane Rosso, torna nel Dekkan a mangiare lucertole. Va' da tuo fratello Chikai... Cane, Cane, Cane Rosso! C'è del pelo in mezzo a tutte le tue dita - e sventagliò di nuovo le dita dei piedi. - Vieni giù, prima che ti facciamo morire di fame, scimmia pelata! - urlò il Branco, e questo era esattamente ciò che Mowgli desiderava. Si stese lungo tutto il ramo, con la guancia contro la corteccia, il braccio destro libero e di lassù disse al Branco ciò che pensava e sapeva sul loro conto, sui loro usi e costumi, sulle loro femmine e i loro cuccioli. Non c'è al mondo un linguaggio più offensivo e provocante di quello che il Popolo della Jungla usa per esprimere scherno e disprezzo. Se ci pensate, vedrete che è proprio così. Come Mowgli aveva detto a Kaa, egli aveva molte piccole spine pungenti sotto la lingua, e con tono calmo e con un calcolo preciso portò i "dhole" dal silenzio a un sordo brontolio, dal brontolio agli urli, dagli urli a rauchi e impotenti latrati. Essi cercarono di rispondere alle sue provocazioni, ma era come se un cucciolo avesse tentato di tener testa a Kaa infuriato; e durante tutto questo tempo la mano destra di Mowgli stava stretta al suo fianco, pronta ad agire, e i piedi erano saldamente attorcigliati al ramo. Il grosso capo baio aveva spiccato diversi balzi in aria, ma Mowgli non voleva arrischiare un colpo sbagliato. Finalmente, con le forze centuplicate dal furore, il "dhole" fece un salto di sette od otto piedi da terra. Allora la mano di Mowgli si protese fulminea come la testa di un serpente e lo agguantò per la pelle del collo, e il ramo ricevette una scossa violenta, quando l'animale ricadde quasi trascinando a terra anche Mowgli. Ma questi non lasciò la stretta, e risollevò la bestia pollice per pollice fino all'altezza del ramo, tenendolo penzoloni come uno sciacallo annegato. Con la sinistra prese il coltello e tagliò netto l'irta coda rossastra, ributtando poi a terra il "dhole". Era proprio ciò che gli occorreva. Il Branco non avrebbe più seguito la traccia di Won-tolla ora, fino a che non avesse ucciso Mowgli o fino a che Mowgli non avesse ucciso i "dhole". Li vide disporsi in circolo, con un fremito nelle anche che significava che si disponevano a fermarsi lì: allora si arrampicò su una biforcazione più alta, si allungò comodamente sulla schiena e si mise a dormire. Si destò dopo tre o quattro ore e contò i "dhole" del Branco. Erano tutti là, silenziosi, col pelo irto, assetati, con gli occhi color dell'acciaio. Il sole stava volgendo al tramonto: di lì a mezz'ora il Piccolo Popolo delle Rocce avrebbe terminato il suo lavoro e, come sapete, i "dhole" non sono nella loro miglior forma per combattere, al tramonto. - Non avevo bisogno di custodi così fedeli - disse cortesemente, rizzandosi su un ramo - me ne ricorderò. Siete dei veri "dhole", ma, a parer mio, siete tutti troppo simili l'uno all'altro. Per questo non restituisco la sua coda a quel grosso mangiatore di lucertole. Non sei contento, Cane Rosso? - Io stesso ti tirerò fuori le budella! - urlò il capo, grattando il tronco ai piedi dell'albero. - D'accordo, ma pensa, saggio topolino del Dekkan: ci saranno ora molti cuccioli di cani rossi senza coda, sì, con dei mozziconi di rossa carne viva che scotteranno, quando la sabbia è calda. Va' a casa, Cane Rosso, e grida alto e forte che una scimmia ti ha ridotto così. Non vuoi andare? Allora vieni con me e ti farò metter giudizio. Egli si mosse alla guisa dei "bandar-log" verso il prossimo albero e così via, dall'uno all'altro, mentre il Branco lo seguiva con i musi famelici alzati. Di tanto in tanto faceva finta di cadere e i cani del Branco si precipitavano uno addosso all'altro, nella smania di essere i primi a sbranarlo. Era uno strano spettacolo - il ragazzo col coltello luccicante al sole che filtrava tra i rami più alti, e il Branco silenzioso, col pelame fulvo e fiammeggiante, che lo seguiva dappresso in gruppo serrato. Quando fu giunto all'ultimo albero, Mowgli prese l'aglio e se ne strofinò accuratamente tutto il corpo, mentre i "dhole" gli lanciavano latrati di scherno. - Scimmia dalla voce di lupo, credi di mascherare così il tuo odore? - dicevano. - Ti seguiremo fino alla morte! - Prendi la tua coda - gridò Mowgli buttandola indietro lungo la via che aveva percorso: il Branco istintivamente le corse dietro per un tratto. - Ed ora seguitemi... fino alla morte. Si lasciò scivolare lungo il tronco e partì come il vento a piedi nudi verso le Rocce delle Api, prima che i "dhole" si rendessero conto di ciò che voleva fare. Essi emisero un profondo latrato e si lanciarono al loro galoppo lungo e pesante che però, alla fine, vince qualsiasi altro essere che corre. Mowgli sapeva che l'andatura del Branco era molto più lenta di quella di un branco di lupi; altrimenti non si sarebbe mai avventurato in una corsa di due miglia allo scoperto. I "dhole" erano sicuri di tenere il ragazzo e Mowgli era invece certo che li avrebbe portati là dove voleva. Era preoccupato soltanto di mantener vivo il loro furore, così da impedire che abbandonassero troppo presto l'inseguimento. Correva con passo regolare, molleggiato e sicuro, mentre il capo scodato del Branco lo seguiva a non più di cinque metri di distanza; il resto del Branco si stendeva per circa un quarto di miglio, inferocito e stimolato dall'ansia della strage. Così Mowgli manteneva ad occhio la distanza, riservando l'ultimo sforzo per la corsa attraverso le Rocce delle Api. Il Piccolo Popolo era andato a dormire sul primo crepuscolo, perché quella non era la stagione avanzata dei fiori; ma, non appena il primo passo di Mowgli risuonò ripercuotendosi sul terreno cavo, egli udì un rombo come se tutta la terra ronzasse. Allora corse come non aveva mai corso prima in vita sua e rovesciò con un calcio uno, due, tre mucchi di sassi nelle fessure buie, che esalavano un odore dolciastro. Udì un ruggito come il ruggito del mare in una grotta, vide con la coda dell'occhio l'aria oscurarsi dietro a lui, vide sotto di sé la corrente della Waingunga e una testa piatta, tagliata come un diamante nell'acqua; spiccò un salto con tutte le sue forze, mentre il cane scodato alle sue spalle sbatteva a vuoto le mascelle, e cadde dritto nell'acqua del fiume sano e salvo, trionfante e senza fiato. Non aveva riportato una sola puntura, perché l'odore dell'aglio aveva tenuto lontano il Piccolo Popolo, per quei pochi secondi che era passato fra di loro. Quando si rialzò, le spire di Kaa lo sostenevano, mentre dall'orlo della scogliera cadevano strane cose, grossi grappoli, si sarebbe detto, di api agglomerate; ma prima che ogni grappolo raggiungesse la superficie dell'acqua le api si levavano a volo e il corpo di un "dhole" era risucchiato dalla corrente. Sopra il loro capo udivano brevi grida furiose, soffocate da un boato come di marosi - il boato delle ali del Piccolo Popolo delle Rocce. Alcuni dei "dhole", poi, erano caduti nelle spaccature che conducevano alle gallerie sotterranee, e là combattevano, mezzo soffocati, sbattendo a vuoto le mascelle tra i favi rovesciati e alla fine, riportati alla superficie dopo che erano morti da ondate fitte di api che li reggevano, venivano da un qualche foro lanciati nel fiume per rotolare finalmente sui mucchi neri dei rifiuti. Vi erano dei "dhole" che avevano spiccato un salto troppo corto ed erano andati a cadere fra gli alberi della scogliera e le api ne avevano cancellato perfino la forma; ma la maggior parte di essi, resa pazza dalle punture, si era gettata nel fiume; e, come aveva detto Kaa, la Waingunga è un fiume famelico. Kaa tenne stretto Mowgli finché il ragazzo ebbe ripreso fiato. - Non possiamo stare qui - disse. - Il Piccolo Popolo si è svegliato per davvero. Vieni! Nuotando basso e tuffandosi quanto più frequentemente poteva, Mowgli si abbandonò alla corrente, impugnando il coltello. - Adagio, adagio - disse Kaa. - Un dente non può ucciderne cento, a meno che non sia il dente d'un cobra; molti dei "dhole" si sono gettati subito in acqua, quando hanno visto sollevarsi il Piccolo Popolo. - Tanto più lavoro per il mio coltello, allora! "Phai!" Come ci segue, il Piccolo Popolo! - e Mowgli s'immerse di nuovo. La superficie dell'acqua era coperta dalle api selvatiche, che ronzavano rabbiosamente e punzecchiavano quanto potevano trovare. - A tacere non ci si rimette mai nulla - disse Kaa (nessun pungiglione poteva penetrare le sue scaglie!) - e tu hai davanti a te tutta la notte per cacciare. Sentili, come urlano! Circa metà del Branco aveva visto la trappola in cui i compagni erano caduti, e, voltandosi bruscamente, si era gettato in acqua, dove la forra finiva fra due ripe scoscese. Le loro grida di rabbia e le loro minacce contro la scimmia degli alberi che li aveva condotti a quella vergogna, si mescolavano alle urla e ai latrati di quelli che erano stati puniti dal Piccolo Popolo. Rimanere a riva significava la morte, e ogni "dhole" lo sapeva. Il loro Branco fu spazzato via dalla corrente, giù tra i vortici profondi dello Stagno della Pace, ma perfino là il Piccolo Popolo li inseguiva furibondo, costringendoli a gettarsi di nuovo nell'acqua. Mowgli riuscì a distinguere la voce del capo senza coda, che invitava il suo popolo a tener duro e a uccidere ogni lupo del Branco di Seeonee. Ma non perse tempo a stare a sentire. - Qui stanno uccidendo dietro di noi, nel buio - gridò un "dhole". - L'acqua è macchiata! Mowgli si era tuffato avanti come una lontra e aveva tirato sott'acqua un "dhole" che tentava di opporre resistenza prima che potesse aprire bocca, e scuri cerchi si levarono alla superficie, quando il corpo, volgendosi su un fianco, risalì a galla. I "dhole" cercarono di tornare indietro, ma ne furono ostacolati dalla corrente, e il Piccolo Popolo punzecchiava loro muso e orecchie, mentre, nell'oscurità sempre più fitta, si udiva il grido di sfida del Branco di Seeonee aumentare man mano di violenza. Mowgli si tuffò di nuovo e un altro "dhole" andò a fondo e tornò a galla morto; e ancora si udì il clamore alla retroguardia del Branco dei "dhole": alcuni urlavan ch'era meglio gettarsi a riva, altri invocavano il loro capo perché li riconducesse nel Dekkan, altri ancora ingiungevano a Mowgli di mostrarsi per farsi ammazzare. - Arrivano alla battaglia con idee diverse e molte chiacchiere - disse Kaa. - Il resto è affidato ai tuoi fratelli laggiù. Il Piccolo Popolo torna a dormire. Ci hanno sospinto lontano, ma anch'io ora torno indietro, perché la mia razza non ha nulla in comune con quella dei lupi. Buona caccia, Fratellino, e ricordati che i "dhole" mordono basso. Un lupo, su tre zampe soltanto, veniva correndo lungo la riva; balzava qua e là, con il muso volto a terra, inarcando il dorso e spiccando salti in aria, come se stesse giocando con i suoi cuccioli. Era Won- tolla, lo Straniero, che, senza dir parola, continuava il suo spaventoso gioco correndo accanto ai "dhole". Questi erano stati a lungo nell'acqua e nuotavano a fatica, col pelo inzuppato e pesante, con le grosse code imbevute come spugne, così stanchi e tremanti ch'essi pure tacevano, osservando quel paio d'occhi fiammeggianti che si moveva di fronte a loro. - Questa non è una buona caccia - disse uno, col fiato mozzo. - Buona caccia! - gridò Mowgli, mentre emergeva coraggiosamente al fianco dell'animale e gli piantava il lungo coltello fra le spalle, spingendolo bene per evitare il morso finale. - Sei tu lì, Cucciolo d'Uomo? - chiese Won-tolla dall'altra sponda. - Domandalo al morto, Straniero - rispose Mowgli. - Non è arrivato nessuno con la corrente? Ho riempito di fango la bocca di questi cani, mi sono preso gioco di loro alla luce del sole e il loro capo ci ha rimesso la coda; ma te ne ho lasciato ancora qualcuno. Da che parte devo spingerli? - Aspetterò - rispose Won-tolla. - Ho tutta la notte davanti a me. L'abbaiare dei lupi di Seeonee si faceva sempre più vicino. - Per il Branco, per tutto il Branco, è deciso! - ed un'ansa del fiume spinse i "dhole" più avanti fra le sabbie e le secche di fronte alle Tane del Branco. Allora si accorsero dell'errore. Avrebbero dovuto prender terra circa un mezzo miglio più su, e affrontare i lupi su un terreno asciutto. Adesso era troppo tardi. La riva era segnata da una riga di occhi fiammeggianti e, fatta eccezione per l'orribile "pheeal" che non aveva mai cessato dopo il tramonto, non si udiva il minimo rumore in tutta la Jungla. Sembrava che Won-tolla li adescasse per attirarli a terra. - Volgetevi e attaccate! - gridò il capo dei "dhole". L'intero Branco si buttò sulla riva, diguazzando e dibattendosi nell'acqua bassa, finché la superficie della Waingunga fu tutta bianca e spumeggiante e le grandi onde si aprivano da ambo le parti come di fronte alla prua di un battello. Mowgli seguiva l'attacco, colpendo di punta e di taglio i "dhole" che, serrati in massa compatta, si rovesciavano sulla sponda come un'ondata. Allora cominciò la lunga battaglia, e continuò accanita, ondeggiante, ora frazionandosi, ora allargandosi o restringendosi lungo la sabbia rossa e umida, sopra e in mezzo alle nodose radici degli alberi, dentro e fuori i cespugli e i ciuffi d'erba: perché anche ora i dhole erano ancora due contro uno. Ma si trovarono di fronte a dei lupi che combattevano per tutto quanto costituiva il Branco; non solo i tozzi, alti cacciatori dal petto largo e dalle bianche zanne, ma anche le "lahinis", come son dette le lupe delle tane, che si battevano per i loro cuccioli; qua e là, poi, erano attaccati e morsi nei fianchi da lupacchiotti di un anno, col primo pelo ancora un po' lanoso. Dovete sapere che un lupo si avventa alla gola e morde il fianco, mentre un "dhole" azzanna di preferenza al ventre: cosicché, quando i "dhole" uscivano scrollandosi dall'acqua e sollevando la testa, il vantaggio era tutto dei lupi. Sulla terraferma i lupi erano in condizioni di inferiorità, ma sia in acqua sia sulla riva il coltello di Mowgli andava e veniva senza sosta. I Quattro si erano affrettati a raggiungerlo. Fratello Bigio, accucciato fra le ginocchia del ragazzo, lo proteggeva di fronte, mentre gli altri gli guardavano la schiena ed i lati o gli facevano scudo, quando l'urto di un "dhole", che si avventava urlando contro la lama tesa, lo buttava a terra. Il resto non era che una zuffa disordinata, una massa serrata e ondeggiante che si muoveva da destra a sinistra e da sinistra a destra lungo la riva e girava anche lentamente tutt'attorno al suo centro. Qui un mucchio si gonfiava come una bolla d'acqua in un vortice, e come una bolla si frangeva ributtando a galla quattro o cinque cani malconci, che cercavano di ripiombare nel folto della mischia; là un lupo isolato, gettato a terra da due o tre "dhole", li trascinava faticosamente con sé e ne era a poco a poco sopraffatto; più in là ancora un lupacchiotto di un anno era tenuto in piedi dalla pressione intorno a lui, sebbene fosse già morto, mentre la madre, folle di muto furore, si volgeva attorno azzannando. Nel bel mezzo della mischia, ancora, un lupo e un "dhole", dimenticando ogni altra cosa, manovravano per riuscire ad azzannare per primi, finché erano spazzati via da un'ondata di combattenti inferociti. Una volta Mowgli passò accanto ad Akela, che, con un "dhole" per parte, serrava con tutta la forza delle sue mascelle sdentate i lombi di un terzo; e una volta vide Phao coi denti piantati nella gola di un "dhole", trascinarsi innanzi l'animale riluttante, fino al punto che perfino i lupacchiotti di un anno potessero finirlo. Ma il grosso della battaglia era un vortice cieco e soffocante nel buio; dappertutto, sopra, attorno e dietro di lui, era una confusione di colpi, di capitomboli, di gemiti, di latrati, di morsi. Con l'inoltrarsi della notte la mischia vertiginosa cresceva di intensità. I "dhole" erano ormai al limite delle forze e avevano paura di attaccare i lupi più forti di loro, ma non osavano ancora darsi alla fuga. Mowgli sentiva che la battaglia volgeva al termine e si contentava di colpire solo per mettere i "dhole" fuori combattimento. I lupacchiotti di un anno acquistavano baldanza; di tanto in tanto c'era il tempo di respirare e di passare una parola a un amico; il semplice lampeggiare del coltello bastava a volte per far indietreggiare un "dhole". - La carne è ormai vicina all'osso - gridò Fratello Bigio, che sanguinava da una ventina di ferite. - Ma c'è ancora l'osso da stritolare - replicò Mowgli. - "Eowawa!" Ecco come facciamo noi nella Jungla! - e la rossa lama saettò come una fiamma lungo i fianchi di un "dhole", le cui anche cedevano sotto il peso di un lupo che gli si era buttato addosso. - Questa preda è mia! - sbuffò il lupo attraverso le narici aride. - Lasciamela! - Hai ancora la pancia vuota, Straniero? - chiese Mowgli. Won-tolla era terribilmente malconcio, ma la sua stretta aveva paralizzato il "dhole" che non poteva volgersi ad azzannarlo. - Per il Toro che mi ha riscattato - disse Mowgli con un amaro sorriso - quello è il cane senza coda! - Ed era davvero un grosso capo baio. - Non è buona guerra ammazzare i cuccioli e le "lahinis" - continuò filosoficamente Mowgli, pulendosi gli occhi dal sangue - a meno di non ammazzare anche lo Straniero; e ho la convinzione che questo Won-tolla ti ucciderà. Un "dhole" si slanciò in aiuto del suo capo; ma prima che i suoi denti raggiungessero il fianco di Won-tolla, il coltello di Mowgli gli si era conficcato nella gola e al resto pensò Fratello Bigio. - Così facciamo noi nella Jungla! - gridò Mowgli. Won-tolla non rispose nulla; soltanto le sue mascelle si serravano sempre più strette sulla schiena del "dhole", mentre anch'esso andava perdendo a poco a poco la vita. Il "dhole" ebbe un sussulto, lasciò ricadere la testa e giacque immobile; Won-tolla si accasciò sopra di lui. - Huh! Il Debito del Sangue è pagato - disse Mowgli. - Canta la canzone, Won-tolla. - Non caccerà più - disse Fratello Bigio - e anche Akela tace da un pezzo. - L'osso è stato stritolato! - tuonò Phao, il figlio di Phona. - Fuggono! Uccidete, uccidete, Cacciatori del Popolo Libero. Un "dhole" dopo l'altro fuggiva da quelle sabbie oscure e insanguinate per salvarsi nel fiume o nel folto della Jungla, più a monte o più a valle, dove la via gli sembrava più libera. - Il debito! Il debito! - gridò Mowgli. - Pagate il debito! Hanno ucciso il Lupo Solitario! Non permettete che neppure un cane fugga! Si slanciò verso il fiume, col coltello in pugno, per colpire ogni "dhole" che osasse toccare l'acqua, quando, da sotto un mucchio di nove morti, emersero la testa e le zampe anteriori di Akela: allora Mowgli si lasciò cadere sulle ginocchia accanto al Lupo Solitario. - Non te l'avevo detto che sarebbe stata l'ultima mia battaglia? - ansimò Akela. - E' stata una buona caccia. E tu, Fratellino? - Sono vivo e ne ho uccisi molti. - Bene. Io muoio e vorrei... vorrei morirti accanto, Fratellino. Mowgli si prese sulle ginocchia la testa orribilmente straziata e con le braccia cinse il collo ferito. - Molto tempo è passato dai vecchi tempi di Shere Khan, quando un Cucciolo d'Uomo si rotolava nudo nella polvere. - No, no, io sono un lupo. Sono della stessa razza del Popolo Libero - gemette Mowgli. - Non è stato per mia volontà che sono nato uomo. - Tu sei un uomo, Fratellino, lupacchiotto mio. Tu sei un uomo, o altrimenti il Branco sarebbe fuggito dinanzi ai "dhole". Ti devo la vita e oggi tu hai salvato il Branco, così come una volta io salvai te. Lo hai dimenticato? Tutti i debiti sono pagati, ora. Va' dalla tua gente. Te lo ripeto, pupilla dei miei occhi, questa caccia è finita. Torna alla tua gente. - Non ci andrò mai. Caccerò da solo nella Jungla. L'ho detto. - Dopo l'estate viene la stagione delle Piogge, e dopo le Piogge la primavera. Torna di tua volontà, prima d'esserci costretto. - Chi mi forzerà? - Mowgli forzerà Mowgli. Torna alla tua gente, torna all'Uomo. - Quando Mowgli forzerà Mowgli, allora ci andrò - rispose Mowgli. - Non ho più altro da aggiungere - disse Akela. - Fratellino, puoi sollevarmi sulle zampe? Anch'io fui capo del Popolo Libero. Con infinita precauzione e dolcezza Mowgli, ammucchiati i corpi morti da un lato, sollevò Akela sulle sue zampe, circondandolo con tutt'e due le braccia; il Lupo Solitario trasse un profondo respiro e intonò il Canto della Morte, che un capo del Branco canta quando sta per morire. Il canto si fece a mano a mano più forte, e si levò sempre più in alto echeggiando oltre il fiume, finché arrivò al «Buona caccia!» finale; allora Akela si scosse un attimo da Mowgli e, balzando nell'aria, ricadde morto sulla sua ultima e più terribile preda. Mowgli sedette con il capo sulle ginocchia, senza più badare ad altro, mentre le implacabili lahinis incalzavano e abbattevano i resti del branco dei "dhole" in fuga. A poco a poco gli urli si spensero e i lupi ritornarono, zoppicanti e doloranti per le ferite, a fare il conto dei morti. Quindici lupi del Branco ed una mezza dozzina di "lahinis" giacevano morti presso il fiume e degli altri non ve n'era nemmeno uno che non fosse ferito. Mowgli rimase seduto per tutto quel tempo, fino alla fresca brezza dell'alba, quando il rosso e umido muso di Phao gli si posò fra le mani e Mowgli si trasse indietro per mostrargli lo scarno corpo di Akela. - Buona caccia! - disse Phao, come se Akela fosse ancora vivo, e poi, rivolto agli altri, volgendo il capo sopra la spalla ferita: - Ululate, cani! Un lupo è morto questa notte! Ma di tutto il Branco di duecento "dhole" guerrieri, che si vantavano che tutte le Jungle erano loro e che nessun essere vivente poteva contendere loro il passo, non uno ritornò nel Dekkan a raccontare cos'era successo. La canzone di Chil. (Questa è la canzone che Chil cantò mentre i nibbi piombavano uno dopo l'altro sul letto del fiume, quando il grande combattimento finì. Chil è un buon amico di tutti, ma è una creatura dal cuore gelido, perché egli sa che quasi tutti nella Jungla, alla fine, giungeranno a lui). Questi erano i miei compagni che uscivano nella notte - ("Chil! Attenti a Chil!") ora io vado ad avvisarli della fine del combattimento. ("Chil! Avanguardia di Chil!") Essi mi hanno detto lassù della preda uccisa da poco, io li ho avvertiti laggiù del daino sulla pianura. Questa è la fine di ogni traccia - non parleranno più! Coloro che hanno lanciato il grido di caccia - coloro che hanno inseguito - ("Chil! Attenti a Chil!") coloro che hanno spinto il "sambhur" a voltarsi e lo hanno inchiodato al suolo - ("Chil! Avanguardia di Chil!") coloro che sono rimasti ultimi dietro la traccia - coloro che sono corsi avanti - coloro che sono sfuggiti al corno abbassato - coloro che hanno vinto: questa è la fine di ogni traccia - essi non cacceranno più! Questi erano i miei compagni - peccato che siano morti! ("Chil! Attenti a Chil!") Ora io vado a confortarli, io che li ho conosciuti nel loro orgoglio. ("Chil! Avanguardia di Chil!") Fianco lacerato e occhio incavato, bocca aperta e rossa, stretti, sparuti e solitari giacciono, i morti sui morti. Questa è la fine di ogni traccia - e qui si nutrono le mie schiere. 8. LA CORSA DELLA PRIMAVERA. L'Uomo ritorna all'Uomo! Grida la sua sfida attraverso la Jungla! Egli, che era nostro fratello, se ne va. Ascolta, ora, e giudica tu, Popolo della Jungla, rispondi, chi lo farà tornare indietro? Chi lo fermerà? L'Uomo torna all'Uomo! Egli sta piangendo nella Jungla: egli, che era nostro fratello, soffre profondamente! L'Uomo ritorna all'Uomo (Oh, noi della Jungla lo abbiamo amato!) e sulla traccia dell'Uomo noi non possiamo più seguirlo. Due anni dopo la grande battaglia col Cane Rosso e la morte di Akela, Mowgli doveva avere circa diciassette anni. Ne dimostrava di più perché il duro esercizio fisico, l'ottimo nutrimento e i bagni ogniqualvolta si sentiva un po' accaldato o impolverato, gli avevano dato una robustezza e uno sviluppo superiori alla sua età. Poteva dondolarsi con una mano sola dal ramo più alto di un albero per mezz'ora di seguito, quando gli capitava di percorrere le vie degli alberi. Poteva arrestare un giovane daino al galoppo afferrandolo per la testa e rovesciandolo a terra. Poteva persino misurarsi con il grosso cinghiale azzurro selvaggio che viveva nelle Paludi del Nord. Il Popolo della Jungla, che prima lo temeva per la sua intelligenza, ora lo temeva per la sua forza e, quando egli se ne andava tranquillamente per i fatti suoi, la sola voce del suo avvicinarsi faceva sgombrare tutti i sentieri del bosco. Pure l'espressione del suo sguardo era sempre gentile e nemmeno quando combatteva i suoi occhi lampeggiavano come quelli di Bagheera. Diventavano soltanto sempre più attenti ed eccitati; e questa era una delle cose che Bagheera non riusciva a spiegarsi. Una volta interrogò Mowgli, al riguardo, e il ragazzo le rispose ridendo: - Quando sbaglio il colpo, mi arrabbio. Quando devo vagare due giorni a digiuno mi arrabbio moltissimo. Non lo dicono questo i miei occhi? - E' la bocca che ha fame - osservò Bagheera - ma gli occhi non dicono nulla. Caccia, cibo o nuoto, è tutto lo stesso... come una pietra quando è asciutta o è bagnata. Mowgli le lanciò una pigra occhiata di sotto le lunghe ciglia e, come sempre, la testa della pantera ricadde. Bagheera conosceva il suo padrone. Erano sdraiati in alto sul fianco di una collina che dominava la Waingunga e la nebbia del mattino era sospesa sotto di loro in fasce bianche e verdi. Quando si levò il sole, si cambiò in mari tempestosi di oro rosso, si dissipò e lasciò che i raggi cadessero bassi sull'erba secca su cui Mowgli e Bagheera stavano riposando. Volgeva la fine della stagione fredda, foglie ed alberi apparivano avvizziti e scoloriti, e ad ogni soffio di vento si udiva dovunque un secco crepitio. Una fogliolina volteggiava sbattendo furiosamente contro un ramoscello come accade quando una foglia sola è afferrata dal vento. Svegliò Bagheera che annusò l'aria del mattino con una tosse rauca e profonda, si rotolò sul dorso e colpì con le zampe anteriori la foglia che le sbatteva di sopra. - La stagione sta cambiando - disse. - La Jungla si è messa in movimento. Il Tempo del Nuovo Linguaggio è vicino. Quella foglia lo sa! Magnifico! - L'erba è secca - rispose Mowgli, strappandone un ciuffo. - Perfino Occhio-di-Primavera (è un fiorellino dal calice a campana di un color rosso cereo che spunta qua e là tra l'erba), perfino Occhio-di- Primavera è chiuso e... Bagheera, ti par bello che la Pantera Nera stia sdraiata così sul dorso a batter l'aria con le zampe, come se fosse un gatto selvatico? - "Aowh?" - chiese Bagheera. Sembrava stesse pensando ad altro. - Dico se ti par bello che la Pantera Nera tossisca e faccia smorfie, mugoli e si rotoli così? Ricordati, tu ed io siamo i Padroni della Jungla! - D'accordo, sì, ho capito, Cucciolo d'Uomo - e Bagheera fece un altro giro in fretta su se stessa e si alzò, scrollando la polvere dai fianchi neri e spelacchiati (stava infatti mutando il pelo invernale). - Certo, siamo i Padroni della Jungla! Chi è forte come Mowgli? Chi è saggio come lui? - Nella sua voce c'era una strana intonazione che fece volgere Mowgli per accertarsi che la Pantera Nera non si stesse per caso prendendo gioco di lui; perché la Jungla è piena di parole che sembrano intendere una cosa, mentre alludono ad un'altra. - Dicevo che noi siamo senza dubbio i padroni della Jungla - ripeté Bagheera. - Ho sbagliato? Non sapevo che il Cucciolo d'Uomo non poggiasse più i piedi sulla terra. Vola, allora? Mowgli sedette coi gomiti appoggiati alle ginocchia, guardando la prima luce del giorno, giù attraverso la vallata. Da qualche parte, nei boschi sottostanti, un uccello stava provando con una voce sottile e ancora aspra le prime brevi note del suo canto di primavera. Non era che il primo accenno del gorgheggio gioioso ed impetuoso che avrebbe lanciato in seguito, ma Bagheera lo udì ugualmente. - Ho detto che il Tempo del Nuovo Linguaggio è vicino - brontolò la Pantera sferzandosi i fianchi con la coda. - Lo sento - rispose Mowgli - ma perché tremi tutta, Bagheera? Il sole è caldo! - Questo è Ferao, il picchio rosso - continuò Bagheera. - Lui non ha dimenticato. Anch'io, ora, devo ricordarmi il mio canto - e cominciò a ronfare e a miagolare tra sé, interrompendosi e riprendendo insoddisfatta. - Non c'è selvaggina qui attorno - osservò Mowgli. - Ma le tue orecchie sono chiuse tutt'e due, Fratellino? Questo non è un grido di caccia, ma la canzone che sto provando per il momento del bisogno. - L'avevo dimenticato. Saprò quando sarà giunto il Tempo del Nuovo Linguaggio, perché allora tu e gli altri ve ne andrete tutti via e mi lascerete solo - disse Mowgli con un accento di irritazione nella voce. - Però, Fratellino, - cominciò Bagheera - non sempre noi... - Ti dico che lo fate - rispose Mowgli, puntando imperiosamente il suo indice. - Voi ve ne andate via e io, che sono il Padrone della Jungla, devo vagabondare solitario. Che cosa è avvenuto la stagione scorsa, quando volevo cogliere delle canne da zucchero nei campi di un Branco di Uomini? Ho mandato un corriere - ho mandato te! - da Hathi, pregandolo di venire da me una certa sera a cogliermi con la sua proboscide l'erba dolce. - E' venuto soltanto due notti dopo - rispose Bagheera, accennando ad accucciarsi - e di quella lunga erba dolce che ti piaceva ne colse molta più di quanta un Cucciolo d'Uomo avrebbe potuto mangiarne in tutte le notti delle Piogge. Non era colpa mia. - Non venne la notte che io lo mandai a chiamare. No, stava correndo e lanciando barriti e ruggiti attraverso le valli, al chiaro di luna. La sua traccia era larga come quella di tre elefanti, perché non si nascondeva tra gli alberi. Danzava, nella luce della luna dinnanzi alle case del Branco degli Uomini. Lo vidi, e neppure allora venne da me, da me che sono il Padrone della Jungla! - Era il Tempo del Nuovo Linguaggio - osservò la Pantera, sempre con molta umiltà. - Forse, Fratellino, quella volta non lo avevi chiamato con una Parola Maestra! Ascolta Ferao e sta' di buon umore. Lo scatto di collera di Mowgli sembrò svanire; stava supino, col capo appoggiato sulle braccia e gli occhi chiusi. - Non lo so e non mi importa di saperlo - rispose con voce assonnata. - Dormiamo, Bagheera. Ho il cuore che mi pesa: fammi da cuscino per favore. La Pantera si stese di nuovo, sospirando, perché sentiva Ferao che provava e riprovava la sua canzone primaverile della Nuova Favella, come la chiamano. Nella Jungla indiana le stagioni scivolano una nell'altra quasi senza distacco. Sembra che ve ne siano soltanto due, l'umida e la secca; ma, se fate bene attenzione, sotto i torrenti degli acquazzoni o le nuvole di carbone e di polvere, le scoprirete tutte e quattro che si succedono in ciclo regolare. La primavera è la più radiosa perché non ha da ricoprire i campi squallidi e nudi di nuove foglie e fiori, ma deve sospingersi dinanzi spazzando via i resti mezzo verdi, ancora pendenti qua e là, sopravvissuti all inverno clemente che ha concesso loro di rimanere; e deve far sì che la dura terra, mezzo spoglia e ormai invecchiata, ringiovanisca e si rinnovi. E lo fa così bene, che non c'è primavera al mondo come la primavera della Jungla. Viene un giorno in cui tutto è stanco e persino gli odori che si disperdono nell'aria pesante sono vecchi e appassiti. E' un fenomeno che non si saprebbe spiegare ma lo si sente. Poi viene un altro giorno (in apparenza, però nulla è cambiato) in cui tutti gli odori sono nuovi e deliziosi, e i baffi del Popolo della Jungla fremono fino alle radici e il loro pelame invernale si stacca dai fianchi in lunghe ciocche sudice. Allora, a volte, cade una pioggerella e tutti gli alberi, i cespugli, i bambù, le boraccine e le piante dalle foglie grasse di succhi si destano con un fruscio di crescita che sembra quasi udibile, e giorno e notte, in mezzo a questo rumore, passa un cupo ronzio. E questo il rumore della primavera, una vibrazione sonora, che non è né di api, né di cascate, né di vento tra le cime degli alberi, ma è un sussurrar della terra calda e felice. Fino a quell'anno Mowgli aveva sempre goduto del mutamento delle stagioni. Era lui che generalmente scorgeva il primo Occhio-di- Primavera seminascosto in mezzo all'erba, e il primo cumulo di nubi primaverili, che non hanno paragone nella Jungla. Si poteva udire la sua voce in tutti i luoghi umidi, dove i fiori sbocciavano come stelle, unirsi ai grossi ranocchi nei loro cori o prendersi gioco delle civette col capo all'ingiù che squittivano nelle notti bianche. Come tutto il suo popolo, egli sceglieva la primavera per le sue scappate e si spostava, per la pura gioia di correre nell'aria calda, per trenta, quaranta o cinquanta miglia tra il crepuscolo e il sorgere della stella del mattino, per poi tornare indietro trafelato, ridente e coronato di strani fiori. I Quattro non lo seguivano in quei pazzi vagabondaggi per la Jungla, ma se ne andavano a cantare con gli altri lupi. Il Popolo della Jungla è molto affaccendato in primavera, e Mowgli lo sentiva grugnire, ruggire o fischiare a seconda della specie. Le voci degli animali, allora, sono diverse da quelle delle altre stagioni dell'anno, ed è questa una delle ragioni per cui la primavera è chiamata nella Jungla il Tempo della Nuova Favella. Ma quella primavera, come aveva detto a Bagheera, il suo cuore si era mutato. Fin da quando le canne di bambù si erano chiazzate di scuro, egli aveva atteso con ansia il mattino in cui sarebbero cambiati gli odori; ma quando questo venne e Mor, il Pavone, fiammeggiante di bronzo, azzurro e oro, lo ebbe gridato a gran voce attraverso le foreste nebbiose, Mowgli aprì la bocca per trasmettere il grido; tuttavia le parole gli si fermarono nella strozza, e una strana sensazione lo invase dalla punta dei piedi alla radice dei capelli, una sensazione di vera infelicità, tanto che egli si scrutò con cura per accertarsi di non aver calpestato una spina. Mor cantò gli odori nuovi, gli altri uccelli ripeterono il grido e dalle rocce della Waingunga egli udì l'urlo rauco di Bagheera, qualcosa di mezzo tra il grido di un'aquila e il nitrito di un cavallo. Ci fu uno schiamazzo e un frusciare di "bandar-log" su nei rami gonfi di nuove gemme e là ristette Mowgli, mentre il torace rigonfio con cui si era preparato a rispondere a Mor gli si afflosciava in sospiri brevi di malinconia. Si guardò attorno ma non vide altro che i "bandar-log" che, sgattaiolando fra gli alberi, si facevano beffe di lui, e Mor che, con la coda aperta in splendida ruota, saltellava sul pendio sottostante. - Gli odori sono mutati - gridava Mor. - Buona caccia, Fratellino! Qual è la tua risposta? - Buona caccia, Fratellino! - fischiavano Chil l'Avvoltoio e la sua compagna, piombando insieme nel vuoto. I due volarono così vicini al naso di Mowgli che un ciuffo delle loro piume bianche volò via. Una leggera pioggerella primaverile - quella che viene chiamata pioggia dell'elefante - batté sulla Jungla in un cerchio di mezzo miglio, lasciò dietro a sé le foglioline nuove umide e tremolanti, e si perse in un doppio arcobaleno e in un leggero brontolio di tuono. Il mormorio della primavera echeggiò per un istante e poi tacque, ma tutto il Popolo della Jungla sembrò passarsi la voce nello stesso tempo. Tutti, eccetto Mowgli. «Ho mangiato roba buona, - pensava tra sé - ho bevuto acqua buona. La gola non mi brucia e non mi si chiude come quando mangiai la radice macchiata d'azzurro che Oo la Tartaruga mi aveva garantito essere buona. Ma il mio cuore è pesante, ed ho parlato molto sgarbatamente a Bagheera e agli altri, che sono il Popolo della Jungla e il mio popolo. E anche ora sento un po' caldo e un po' freddo, oppure non ho né caldo né freddo, ma mi sento irritato contro qualcosa che non riesco a scorgere. "Huhu!" E' ora di fare una corsa! Questa notte attraverserò le montagne, sì, e farò una corsa di primavera verso le Paludi del Nord, e poi tornerò indietro. Ho cacciato per troppo tempo con eccessiva facilità. I Quattro verranno con me, perché stanno diventando grassi come vermi bianchi». Lanciò un richiamo, ma non uno dei Quattro gli rispose. Erano troppo lontani per sentirlo e cantavano le canzoni di primavera - le Canzoni della Luna e del Sambhur - con i lupi del Branco; in primavera, infatti, il Popolo della Jungla non fa quasi differenza tra il giorno e la notte. Lanciò l'aspro abbaio di richiamo, ma gli rispose soltanto il "miau" canzonatorio del gattino selvatico macchiettato che s'arrampica qua e là fra i rami in cerca dei primi nidi di uccelli. Allora fu scosso tutto dall'ira e sguainò a mezzo il coltello. Poi si fece molto altezzoso, benché non ci fosse nessuno a vederlo, e scese a gran passi dalla collina, col mento in fuori e le sopracciglia aggrottate. Ma nemmeno un cittadino del suo popolo gli rivolse la parola, perché erano tutti occupati nelle loro faccende private. «Sì, - pensò Mowgli fra sé, sebbene riconoscesse in cuor suo di non averne motivo. - Lasciate che venga dal Dekkan il Cane Rosso o che il Fiore Rosso si metta a danzare tra i bambù, e allora tutta la Jungla correrà gemendo da Mowgli e lo invocherà con nomi altisonanti. Ma ora, siccome Occhio-di-Primavera è rosso e Mor, poi, sente il bisogno di mostrare le sue zampe spennate, in qualche danza primaverile, la Jungla impazzisce come Tabaqui... Per il Toro che mi ha riscattato! Sono o non sono il Padrone della Jungla? Zitti, che fate qui?». Una coppia di giovani lupi del Branco trottava giù per un sentiero, in cerca di un terreno aperto su cui combattere. (Ricorderete che la Legge della Jungla proibisce di battersi alla presenza del Branco) . Il pelo del loro collo era irto come fil di ferro ed essi abbaiavano furiosamente raccogliendosi su se stessi per il primo urto. Mowgli balzò innanzi, li afferrò entrambi per la gola credendo di poterli rovesciare, come spesso aveva fatto nei giuochi e nelle cacce del Branco. Ma non si era mai, prima di allora, immischiato in un combattimento di primavera: i due balzarono in avanti, lo buttarono di fianco e, senza perder tempo in parole, rotolarono a terra uno sopra l'altro, tenacemente avvinti. Mowgli non aveva quasi toccato terra che già si era rialzato, mettendo a nudo i denti bianchi e il coltello in quell'istante avrebbe voluto ucciderli tutt'e due per la sola ragione che combattevano, mentre egli desiderava che se ne stessero tranquilli, sebbene ogni lupo abbia secondo la Legge il pieno diritto di combattere. Prese a saltellare attorno a loro, con le spalle basse e la mano intenta, pronta a vibrare un colpo doppio, quando si fosse calmata la prima furia della zuffa; ma, mentre aspettava, gli sembrò che le forze lo abbandonassero, la punta del coltello gli ricadde ed egli allora rinfoderò la lama e rimase a osservare. - Ho certamente mangiato del veleno - sospirò. - Da quando ho disperso il Consiglio col Fiore Rosso, da quando ho ucciso Shere Khan, nessuno del Branco era più riuscito ad abbattermi. E questi sono gli ultimi arrivati del Branco, cacciatori di primo pelo! Le forze mi hanno abbandonato e presto mi toccherà morire. Oh, Mowgli, perché non li uccidi tutt'e due? Il combattimento continuò fino a che uno dei due lupi fuggì, e Mowgli fu lasciato solo, sul terreno calpestato e insanguinato, guardando ora il coltello e ora le sue gambe e le sue braccia, mentre una sensazione di infelicità, quale non aveva mai conosciuto prima di allora, lo investì come l'acqua ricopre un tronco alla deriva. Quella sera uccise per tempo e mangiò poco, per essere in forma per la sua corsa di primavera, e mangiò da solo, perché tutto il Popolo della Jungla era in giro a cantare o a combattere. Era, come usano dire, una notte perfettamente bianca. Tutta la verzura, dalla mattina, sembrava cresciuta di un mese. Il ramo che il giorno prima era ancor coperto di foglie gialle, stillò gocce di linfa, quando Mowgli lo spezzò. Il muschio si arricciava folto e tiepido sui suoi piedi, l'erba novella non era tagliente, e tutte le voci della Jungla risuonavano come una corda bassa di un'arpa pizzicata dalla luna - la Luna del Nuovo Linguaggio, che spandeva la sua luce piena sulle rocce e sulle pozze d'acqua, scivolava fra il tronco e il suo rampicante e filtrava attraverso milioni di foglie. Mowgli, dimenticando il suo sconforto, intonò un canto di gioia mentre si metteva in cammino. Ma più che camminare, volava, perché aveva scelto il lungo pendio in discesa sturbando le anatre selvatiche durante la sua corsa, e si sedette su un tronco che conduceva alle Paludi del Nord, proprio nel più profondo cuore della muschioso che sorgeva dall'acqua nera. Jungla, dove il terreno elastico smorzava il rumore dei suoi passi. Un uomo allevato tra gli uomini avrebbe sbagliato strada più volte inciampando nell'incerto chiarore della luna, ma i muscoli di Mowgli, allenati da anni di esperienza, lo portavano come se fosse una piuma. Quando un tronco marcio o una pietra nascosta gli rotolava sotto i piedi, si rimetteva in equilibrio senza sforzo e non rallentava la corsa. Quando era stanco di camminare, alzava le mani come una scimmia verso il più vicino rampicante, e, più che arrampicarsi, sembrava volare su tra i rami sottili, finché, stanco di seguire una via aerea, si slanciava a terra di nuovo, in una lunga curva verde tra le fronde. C'erano ancora dei caldi anfratti, circondati da rocce umide, nei quali Mowgli riusciva a stento a respirare a causa dei grevi profumi dei fiori notturni o della fioritura sbocciata sulle liane: viali oscuri dove la luce lunare si allungava in chiazze regolari come i marmi a scacchiera della navata di una chiesa; folte macchie dove la fresca umida vegetazione gli arrivava all'altezza del petto e lo cingeva con le sue braccia; e cime di colline coronate da rocce spezzate, dove egli saltava di pietra in pietra, sopra le tane delle piccole volpi spaventate. Poteva percepire, esile e lontano, il "chug-drug" di un cinghiale che si affilava le zanne contro un tronco, e poi si trovava di fronte la grossa bestiaccia grigia, tutta sola, intenta a graffiare e a lacerare la corteccia di un alto albero, con il grugno schiumante di bava e gli occhietti fiammeggianti come fuoco. Oppure, al suono di corna cozzanti e di sordi grugniti, deviava dalla sua strada e si imbatteva in una coppia di "sambhur" inferociti, che si caricavano a testa bassa, rigati di sangue che, al chiaror di luna, sembrava nero. Presso qualche guado, poi, poteva udire Jacala, il Coccodrillo, muggire come un toro o disturbare un groviglio del Popolo Velenoso; ma, prima che questi riuscissero a colpirlo, egli era di nuovo lontano, oltre la ghiaia luccicante, avvolto dalla Jungla profonda. Così continuò la sua corsa, ora gridando a gran voce, ora cantando fra sé, come se fosse quella notte l'essere più felice di tutta la Jungla, finché l'odore dei fiori lo avvertì che si trovava vicino alle paludi che si stendevano molto oltre il limite estremo dei suoi territori di caccia. Anche qui, un uomo allevato tra gli uomini sarebbe sprofondato ogni tre passi, ma era come se i piedi di Mowgli avessero occhi, e, senza chiedere aiuto a quelli del capo, lo facevano balzare da una zolla all'altra, da una pietra scintillante all'altra. Si diresse verso il centro della palude, disturbando le anatre selvatiche durante la sua corsa, e si sedette su un tronco muschioso che sorgeva dall'acqua nera. La palude era tutta desta intorno a lui, perché, in primavera, il Popolo degli Uccelli dorme di un sonno assai leggero e va e viene durante la notte in interi stormi. Ma nessuno si curò di Mowgli che, seduto tra le alte canne, canterellava a mezza voce canzoni senza parole e si esaminava le piante dei piedi scuri e induriti per vedere se non vi fosse rimasta conficcata qualche spina. Tutta la sensazione di infelicità che aveva provato pareva esser rimasta indietro, nella sua Jungla, e stava per cominciare un canto a gola spiegata, quando essa lo riprese dieci volte più amara di prima. Questa volta Mowgli ebbe paura: - Eccola anche qui! - mormorò. - Mi ha seguito! - e si guardò alle spalle per vedere se la Cosa stesse dietro a lui. - Non c'è nessuno qui. - I rumori notturni della palude continuavano, ma nessuno gli rivolse la parola, né bestia, né uccello; e il nuovo senso di sconforto si accrebbe. - Ho certamente mangiato del veleno - disse con voce strozzata dal terrore. - Devo aver mangiato del veleno senza accorgermene e sto perdendo le forze. Ho avuto paura; ma non io, fu Mowgli che ebbe paura quando i due lupi combattevano. Questo è il segno sicuro che ho mangiato del veleno. Ma chi se ne cura nella Jungla? Cantano, urlano, combattono, corrono al chiaro della luna in compagnia, e io, ahimè!, sto morendo nelle paludi, del veleno che ho mangiato. - Sentì una gran pietà di sé, e quasi gli venne da piangere. - Poi - continuò - troveranno il mio cadavere nell'acqua nera. No, voglio tornare alla mia Jungla e morirò sulla Rupe del Consiglio, e Bagheera, a cui voglio bene, se non sta urlando nella valle, Bagheera forse veglierà per un po' sui miei resti, per impedire che Chil faccia con me come fece con Akela. Una calda e grossa lacrima gli cadde sul ginocchio e Mowgli, nella sua infelicità, fu quasi lieto di essere infelice, se riuscite ad intendere questa specie di gioia alla rovescia. - Come Chil l'Avvoltoio fece con Akela la notte in cui salvai il Branco dai Cani Rossi. - Rimase tranquillo per un poco, ripensando alle ultime parole del Lupo Solitario, che voi certo ricorderete. - Akela mi disse un mucchio di cose sconcertanti prima di morire, perché, quando siamo in punto di morte, i nostri pensieri cambiano. Mi disse... Eppure, io appartengo alla Jungla! Nell'eccitazione provocata dal ricordo del combattimento sulle rive della Waingunga, gridò ad alta voce le ultime parole, ed una bufala balzò sulle ginocchia tra le canne e sbuffò: - C'è un uomo! - Uhh! - disse Mysa, il Bufalo Selvatico (Mowgli lo udì rivoltolarsi nella sua pozza) - quello non è un uomo. E' solo il lupo senza pelo del Branco di Seeonee. In notti come questa, ama scorrazzare qua e là. - Uhh! - rispose la bufala. - Credevo che fosse un uomo. - Ti dico di no. Oh, Mowgli, c'è pericolo? - muggì Mysa. - Oh, Mowgli, c'è pericolo? - gli fece eco il ragazzo in tono canzonatorio. - Mysa non sa pensare ad altro: c'è pericolo? Ma che ve ne importa di Mowgli, se se ne va su e giù, vegliando di notte, per la Jungla? - Come grida! - disse la bufala. - Gridano così - rispose Mysa con disprezzo - quelli che, dopo aver strappato l'erba, non sanno come mangiarla. - Per meno di questo - brontolò Mowgli fra sé - per meno di questo, durante le ultime piogge ho stanato Mysa col pungolo dalla sua pozza e, standogli addosso a cavalcioni, gli ho fatto attraversare la palude, guidandolo con una cavezza di giunco. Allungò una mano per spezzare una delle canne fronzute, ma la lasciò ricadere con un sospiro. Mysa riprese a ruminare, mentre l'erba lunga frusciava dove pascolava la bufala. - Non voglio morire qui - disse rabbiosamente Mowgli. - Mi vedrebbe Mysa che è dello stesso sangue di Jacala e del maiale: andiamo oltre le paludi e vediamo che cosa accadrà. Non ho mai fatto una corsa di primavera come questa, avendo caldo e freddo a un tempo. Su, Mowgli! Non poté resistere alla tentazione di strisciare tra le canne fino a Mysa e di pungerlo con la punta del coltello. Il bestione, tutto grondante, balzò fuori dalla sua pozza come una bomba che esplode, e Mowgli rise a tal punto che dovette sedersi. - Ora puoi raccontare che il lupo senza pelo del Branco di Seeonee una volta ti ha condotto al pascolo, Mysa - gridò. - Lupo? TU! - sbuffò il bufalo, pestando nel fango. - Tutta la Jungla sa che tu eri pastore di un gregge domestico, un marmocchio d'uomo, come quello che strilla laggiù, nella polvere, vicino alle messi. Tu della Jungla! Quale cacciatore avrebbe strisciato come un serpente tra le sanguisughe e, con una burla ignobile, una burla degna di uno sciacallo, mi avrebbe svergognato dinanzi alla mia bufala? Vieni sulla terra ferma e io... e io... - e Mysa schiumava di rabbia, perché di tutti gli abitanti della Jungla Mysa è quello che ha il peggior carattere. Mowgli lo osservò sbuffare e ansimare coi suoi occhi che non mutano mai. Quando poté farsi sentire attraverso gli spruzzi del fango, disse: - Quale Branco di Uomini ha la sua tana qui tra le paludi, Mysa? Questa Jungla è nuova per me. - Va' verso il nord, allora - mugghiò il bufalo infuriato, perché Mowgli lo aveva punto piuttosto rudemente. - E' stato uno scherzo degno di un nudo mandriano di vacche. Va' a raccontarlo al villaggio che sta all'estremità della palude. - Il Branco degli Uomini non gusta i racconti della Jungla e non credo, Mysa, che un graffio più o meno sulla tua pelle sia argomento sufficiente per interessare il Consiglio. Ma voglio andare a vedere questo villaggio; sì, voglio andarci. Calmati, adesso; non capita tutte le notti che il Padrone della Jungla venga a condurti al pascolo. Si mise in cammino sul terreno viscido all'orlo della palude, ben sapendo che Mysa non lo avrebbe mai caricato lì sopra, e si allontanò di corsa, ridendo ancora al pensiero dell'ira del bufalo. - Le mie forze non mi hanno abbandonato completamente - pensò. - Forse il veleno non è penetrato fino all'osso. C'è una stella bassa laggiù - e la osservò fra le palme delle mani semichiuse. - Per il Toro che mi ha riscattato, quello è il Fiore Rosso, il Fiore Rosso presso il quale sedevo prima... ancor prima di arrivare al primo Branco di Seeonee! Ora che l'ho visto, finirò la mia corsa. La palude terminava in una vasta pianura dove brillava una luce. Da lungo tempo Mowgli non s'era più interessato delle faccende degli uomini, ma il bagliore del Fiore Rosso, quella notte, lo attirava. - Andrò ad esplorare - si disse - come facevo nei tempi andati, e voglio vedere se il Branco degli Uomini è molto mutato. Dimenticando che non era più nella sua Jungla, nella quale poteva fare ciò che gli piaceva, camminò senza fare attenzione sull'erba bagnata di rugiada, finché giunse alla capanna dove brillava la luce. Tre o quattro cani abbaiarono dando l'allarme, perché egli si trovava alle soglie di un villaggio. - Oh! - disse Mowgli abbassandosi senza far rumore, dopo aver risposto con un sordo ululato di lupo che fece tacere i cani. - Ciò che deve accadere accadrà. Che cosa hai ancora da fare, Mowgli, con le tane del Branco degli Uomini? - e si stropicciò la bocca nel punto in cui ricordava d'esser stato colpito da una pietra, molti anni prima, quando l'altro Branco degli Uomini lo aveva scacciato. La porta della capanna si aprì e una donna apparve sull'uscio scrutando nell'oscurità. Si udì il pianto di un bimbo e la donna gli disse, voltandosi: - Dormi! E' stato solo uno sciacallo che ha svegliato i cani. Fra poco sarà mattina. Mowgli nell'erba cominciò a tremare, come se avesse la febbre. Conosceva bene quella voce, ma per esserne certo, chiamò sottovoce, sorpreso che il linguaggio umano gli riuscisse così facile: - Messua! O Messua! - Chi mi chiama? - domandò la donna, con un tremito nella voce. - Mi hai dimenticato? - rispose Mowgli; la sua gola era asciutta, mentre parlava. - Se sei TU, dimmi, quale nome ti avevo dato? - e, premendosi il petto con una mano, socchiuse la porta. - Nathoo! Nathoo! - riprese Mowgli, perché, se vi ricordate, quello era il nome che gli aveva dato Messua, quando era giunto la prima volta al Branco degli Uomini. - Vieni, figlio mio - chiamò Messua, e Mowgli uscì alla luce osservando attentamente Messua, la donna che era stata buona con lui e alla quale egli aveva salvato la vita dal Branco degli Uomini tanto tempo addietro. Era più vecchia e aveva i capelli grigi ormai, ma gli occhi e la voce non erano mutati. Secondo l'abitudine delle donne, credeva di ritrovare Mowgli come lo aveva lasciato, e i suoi occhi erravano increduli dal petto alla testa del giovinetto, che toccava la sommità della porta. - Figlio mio! - mormorò, cadendogli ai piedi. - Ma non è mio figlio. E' una Divinità delle Selve! Ahai! Ritto nella luce rossa della lampada a olio, forte, alto, bello, con i lunghi capelli neri che gli scendevano sulle spalle, il coltello appeso al collo e il capo incoronato da una ghirlanda di gelsomino bianco, Mowgli poteva davvero esser scambiato per qualche divinità silvana delle leggende della Jungla. Il bimbo, mezzo addormentato nella sua culla, balzò a sedere e si mise a piangere terrorizzato. Messua si volse per tranquillizzarlo e Mowgli rimase in piedi, a guardare gli orci per l'acqua, le pentole, la madia e tutte le altre cose che servono agli uomini e che constatava di ricordare così bene. - Che vuoi da mangiare o da bere? - mormorò Messua. - Tutto ciò che vedi è tuo. Ma sei quello che io un tempo chiamavo Nathoo, o sei davvero un dio? - Sono Nathoo - rispose Mowgli. - Sono molto lontano dai luoghi dove abito. Ho visto questa luce e mi sono spinto sin qui. Non sapevo che tu fossi qui. - Dopo che venimmo a Khanhiwara, - cominciò Messua ancora intimidita - gli Inglesi ci diedero aiuti contro i contadini che avevano cercato di bruciarci vivi. Te ne ricordi? - Certo, non l'ho dimenticato. - Quando poi, sotto la protezione della Legge inglese, facemmo ritorno al villaggio di quei malvagi, non ci fu più possibile trovarlo. - Ricordo anche questo - disse Mowgli con un fremito nelle narici. - Il mio uomo, allora, andò a lavorare nei campi e più tardi, perché era davvero un uomo robusto, potemmo acquistare un po' di terra qui. Non è un villaggio ricco come quello di prima, ma non abbiamo bisogno di molto, noi due. - E dov'è lui, l'uomo che scavava nella terra quella notte in cui era terrorizzato? - E' morto, un anno fa. - E quello? - chiese Mowgli indicando il piccino. - E' mio figlio, che è nato due stagioni delle Piogge fa. Se sei un dio, dagli il Favore della Jungla, così che possa andar salvo in mezzo al tuo... al tuo popolo, come vi andammo noi, quella notte. Sollevò il bambino, che, dimenticando la paura, allungò la mano per giocare con il coltello che pendeva sul petto di Mowgli e Mowgli allontanò delicatamente le piccole dita. - Se tu, poi, sei Nathoo, quello che fu rapito dalla tigre - continuò Messua, tra i singhiozzi - questo allora è il tuo fratellino. Dagli la benedizione del fratello maggiore. - Ahimè! Che ne so io della cosa che tu chiami benedizione? Io non sono né una divinità, né suo fratello, e... o mamma, mamma, ho il cuore così pesante! - Tremò e depose il piccino. - E' naturale - disse Messua, dandosi da fare fra le pentole. - Questo capita a correre di notte per le paludi. Senza dubbio, la febbre ti è penetrata fino alle ossa. Mowgli sorrise lievemente al pensiero che vi potesse essere qualcosa che gli faceva male nella Jungla. - Accenderò un po' di fuoco - continuò la donna - e ti farò bere del latte caldo. Togliti la ghirlanda di gelsomino: il suo profumo è troppo forte per un posto così angusto. Mowgli sedette, mormorando qualcosa, e si nascose il volto fra le mani. Ogni sorta di strane sensazioni, mai prima provate, lo avevano assalito, proprio come se fosse avvelenato: sentiva un po' di nausea e gli girava la testa. Bevette il latte caldo a lunghe sorsate, mentre Messua gli batteva di quando in quando sulla spalla, ancora incerta se quello fosse suo figlio Nathoo dei tempi andati, o qualche essere meraviglioso della Jungla, ma contenta di sentire che, almeno, era una creatura di carne e d'ossa. - Figlio mio, - disse finalmente, e i suoi occhi erano pieni di orgoglio - non ti ha mai detto nessuno che sei più bello d'ogni altro uomo? - Eh? - chiese Mowgli, perché, naturalmente, non aveva mai udito dir nulla di simile. Messua rise di felicità. Le bastava l'espressione del volto di Mowgli. - Allora, io sono la prima? Ma è vero, sebbene accada di rado che una mamma dica queste cose a suo figlio. Sei molto bello. Non ho mai visto un uomo bello come te. Mowgli mosse il capo, cercando di guardarsi dietro la spalla muscolosa, e Messua rise ancora e così a lungo che Mowgli, pur non sapendo il perché, dovette ridere con lei, mentre il bambino correva dall'uno all'altra, ridendo anche lui. - No, non devi prenderti gioco di tuo fratello - disse Messua, stringendoselo al petto. - Quando sarai bello almeno la metà di lui, ti farò sposare la figlia più giovane di un re e allora cavalcherai enormi elefanti. Mowgli non riusciva a capire una parola su tre di quel linguaggio; il buon latte caldo produceva i suoi effetti su di lui, dopo la lunga corsa, così che si raggomitolò e un minuto dopo era addormentato; Messua, scostatigli i capelli dagli occhi e buttatagli addosso una coperta, si sentì felice. Secondo le abitudini contratte nella Jungla, dormì tutta quella notte e tutto il giorno seguente, perché il suo istinto, che non si assopiva mai completamente, lo avvertiva che lì non aveva nulla a temere. Finalmente si svegliò, con un balzo che fece tremare la capanna, perché la coperta sul viso gli aveva fatto sognare delle trappole; si levò in piedi, con la mano al coltello, girando gli occhi ancor grevi di sonno, pronto ad impegnar battaglia. Messua rise e gli pose dinanzi la cena. Erano poche semplici focacce, cotte sul focolare fumoso, un po' di riso e un grappolo di tamarindi aspri conservati: proprio quel che gli bastava per arrivare alla caccia della notte. L'odore della rugiada sulle paludi gli aguzzò l'appetito e lo rese impaziente di muoversi. Voleva terminare la sua corsa di primavera, ma il piccino insisteva per rimanergli in braccio e Messua voleva pettinargli i lunghi capelli corvini. La donna cantava, pettinandolo, ingenue canzoni per bambini, ora chiamandolo figlio, ora pregando Mowgli di accordare al piccino un po' della sua potenza sulla Jungla. La porta della capanna era chiusa, ma Mowgli udì un suono che gli era familiare e vide Messua aprir la bocca con un'espressione d'orrore nello scorgere una grossa zampa grigia introdursi sotto la porta: Fratello Bigio, fuori, guaiva pentito ed emetteva un lamento soffocato di ansia e di paura. - Stai fuori e aspetta! Non siete venuti quando vi chiamavo! - disse Mowgli nel linguaggio della Jungla, senza volgere il capo; e la grossa zampa grigia scomparve. - No, non portare i tuoi... i tuoi servi con te - implorò Messua. - Io... noi siamo sempre vissuti in pace con la Jungla. - Ma questa è pace - disse Mowgli, alzandosi. - Pensa a quella notte sulla strada di Khanhiwara. C'erano molti lupi dinanzi e dietro di te. Ma mi accorgo che nemmeno in primavera il Popolo della Jungla si dimentica di me. Mamma, me ne vado. Messua si trasse umilmente da parte - pensava ch'egli fosse veramente un dio silvano; ma quando la mano di Mowgli fu sulla porta, il suo istinto materno la spinse a gettare più e più volte le braccia al collo di lui. - Ritorna! - sussurrava. - Che tu sia o no mio figlio, ritorna, perché ti voglio bene... Guarda, dispiace anche a lui. Il piccino piangeva perché l'uomo dal bel coltello lucente se ne andava. - Ritorna ancora - ripeté Messua. - Sia di notte che di giorno, questa porta non sarà mai chiusa per te. La gola di Mowgli soffriva, come se le sue corde fossero tutte tese, e la voce gli uscì strozzata quando rispose: - Tornerò certamente. Ed ora - continuò, allontanando la testa del lupo che gli faceva festa sulla soglia - ho da farti un rimprovero, Fratello Bigio. Perché non siete venuti tutti e quattro, quando vi ho chiamato tanto tempo fa? - Tanto tempo fa? Ma era solo la notte scorsa. Io... noi stavamo cantando le nuove canzoni della Jungla, perché questo è il Tempo del Nuovo Linguaggio. Te lo ricordi? - Sì, è vero. - E non appena i canti furono finiti - continuò seriamente Fratello Bigio - ho seguito la tua traccia, mi sono distaccato da tutti gli altri e ho seguito le tue peste ancora fresche. Ma, Fratellino, che cosa hai fatto? Perché hai mangiato e dormito col Branco degli Uomini? - Se foste venuti quando vi chiamavo, ciò non sarebbe mai accaduto - rispose Mowgli accelerando la corsa. - Ed ora, che accadrà? Mowgli stava per rispondere, quando una fanciulla vestita di bianco scese da un sentiero che veniva dal villaggio. Fratello Bigio disparve immediatamente e Mowgli si nascose senza far rumore in un campo fra le messi già alte. Avrebbe quasi potuto toccarla con la mano, mentre gli steli verdi ed ancor caldi gli si chiudevano sopra ed egli scompariva come un fantasma. La fanciulla gettò un grido, perché credette d'aver visto uno spirito, e poi trasse un sospiro. Mowgli, con le mani, allontanò gli steli e l'osservò finché fu lontana. - Ed ora, non comprendo - disse sospirando a sua volta - perché non siete venuti, quando vi ho chiamati. - Ti seguiamo... ti seguiremo - mormorò Fratello Bigio, leccandogli un tallone - ti seguiremo sempre, tranne che al Tempo del Nuovo Linguaggio. - E mi seguireste se andassi nel Branco degli Uomini? - sussurrò Mowgli. - Non ti seguii la notte in cui il nostro vecchio Branco ti aveva scacciato? Chi ti svegliò, allora, mentre dormivi tra l'erba? - Sì, ma lo faresti ancora? - Non ti ho seguito questa notte? - Sì, ma ancora un'altra volta, e forse un'altra ancora, Fratello Bigio? Fratello Bigio rimase zitto. Quando aprì bocca, brontolò fra sé: - La Pantera Nera diceva la verità. - E che cosa diceva? - L'Uomo ritorna all'Uomo, alla fine. Raksha, nostra madre, diceva. - Anche Akela disse così la notte dei Cani Rossi - mormorò Mowgli. - E così dice anche Kaa, che è il più saggio di tutti noi. - E tu che cosa dici, Fratello Bigio? - Ti hanno scacciato una volta, con parole cattive. Ti hanno ferito la bocca con delle pietre. Hanno mandato Buldeo per ucciderti. Avrebbero voluto gettarti nel Fiore Rosso. Tu e non io hai detto che sono cattivi e insensati. Tu e non io (io seguo il mio popolo) hai fatto avanzare la Jungla sopra di loro. Tu e non io hai cantato contro di loro canzoni più amare di quelle che noi cantammo contro i Cani Rossi. - Ti ho chiesto che cosa ne dici tu. Parlavano mentre correvano. Fratello Bigio per un certo tempo trotterellò senza rispondere, poi, tra un balzo e l'altro, disse: - Cucciolo d'Uomo, Padrone della Jungla, Figlio di Raksha, fratello mio di tana, sebbene in primavera io lo dimentichi per un po', la tua traccia è la mia traccia, la tua tana è la mia tana, la tua preda è la mia preda, il tuo combattimento mortale è il mio. Io parlo per i Tre. Ma che dirai tu alla Jungla? - Hai detto bene. Una volta vista la preda, non è bene aspettare ad ucciderla. Va' innanzi e chiamali tutti alla Rupe del Consiglio e io spiegherò loro che cos'è che provo dentro di me. Ma forse non verranno, forse si dimenticheranno di me ora che è la stagione della Nuova Favella. - E tu non hai dimenticato nulla? - abbaiò Fratello Bigio girando la testa, mentre si lanciava giù al galoppo, seguito da Mowgli pensieroso. In qualunque altra stagione queste notizie avrebbero fatto rizzare il pelo sul collo a tutta la Jungla, ma ora eran tutti intenti alla caccia e alla lotta, a uccidere e a cantare. Fratello Bigio correva da uno all'altro gridando: - Il Padrone della Jungla ritorna dagli Uomini! Venite alla Rupe del Consiglio! E gli animali, impazienti e infelici, rispondevano: - Tornerà a noi durante i calori estivi. Le Piogge lo ricondurranno ai Covili. Vieni a cantare con noi, Fratello Bigio. - Ma il Padrone della Jungla torna fra gli Uomini! - ripeteva il lupo. - "Eee, yoawa!" Il Tempo della Nuova Favella è forse meno delizioso per questo? - rispondevano. Così quando Mowgli, col cuore gonfio, risalì il ben noto cammino fra le rocce fino al punto in cui era stato presentato un tempo al Consiglio, trovò soltanto i Quattro, Baloo, quasi cieco dagli anni, e il grosso Kaa dal sangue freddo, raggomitolato attorno al posto vuoto di Akela. - Dunque, la tua traccia finisce qui, Omettino? - fece Kaa, mentre Mowgli si gettava a terra, nascondendo la faccia tra le mani. - Lancia il tuo grido: siamo d'uno stesso sangue, tu e io, uomo e serpente insieme. - Perché non sono morto al tempo del Cane Rosso? - mormorò il ragazzo. - Le forze m'hanno abbandonato e non è questione di veleno. Notte e giorno, mi sembra di udire un doppio passo sulle mie peste, ma, quando mi volgo, è come se, in quell'istante, qualcuno si fosse sottratto alla mia vista. Vado a vedere dietro gli alberi, e non c'è nessuno. Chiamo, e nessuno risponde; ma mi sembra che qualcuno stia in ascolto e non voglia rispondermi. Mi distendo, ma non trovo riposo. Faccio la corsa di primavera, ma non mi quieto. Faccio il bagno, e non sento refrigerio. Uccidere mi rincresce, ma non ho voglia di battermi se non per uccidere. Il Fiore Rosso è dentro di me, le mie ossa si sono sciolte in acqua e... non so più quel che sono. - A che pro parlarne? - intervenne calmo Baloo, volgendo il capo verso il punto in cui si trovava disteso Mowgli. - L'aveva detto Akela, presso il fiume, che Mowgli avrebbe ricondotto Mowgli nel Branco degli Uomini. L'ho detto anch'io. Ma chi, ora, ascolta le parole di Baloo? Bagheera (dov'è Bagheera stanotte?) lo sa pure lei. E' la Legge. - Quando ci incontrammo alle Grotte Fredde, Omettino, lo compresi anch'io - disse Kaa rigirandosi un po' nelle sue potenti spire. - L'Uomo finisce per andare verso l'Uomo, anche se la Jungla non lo scaccia. I Quattro si guardarono l'un l'altro e guardarono Mowgli, confusi, ma pronti a obbedire. - Dunque, la Jungla non mi scaccia? - balbettò Mowgli. Fratello Bigio e i Tre emisero un cupo brontolio di rabbia e cominciarono: - Finché vivremo noi, nessuno oserà... Ma Baloo interruppe. - Sono io che ti ho insegnato la Legge, e tocca a me parlare - disse; - ora, sebbene non possa scorgere le rocce che mi stanno dinanzi, io so veder molto lontano. Prendi la tua strada, ranocchio; costruisciti il tuo covile col tuo sangue e il tuo branco col tuo popolo; ma quando ti occorreranno gambe, denti, occhi, o vorrai far giungere velocemente un messaggio durante la notte, ricordati, Padrone della Jungla, che la Jungla è tua a un tuo solo cenno. - Anche la Jungla media è tua - aggiunse Kaa; - e io parlo a nome di gente non dappoco. - Ahimè, fratelli - esclamò Mowgli, alzando le braccia con un singhiozzo. - Non so più che mi faccio! Non vorrei andarmene, ma sento che i piedi mi trascinano via. Come potrò abbandonare queste notti? - No, guarda su, Fratellino - ripeté Baloo. - Non devi vergognarti di questa caccia. Dopo aver mangiato il miele, anche noi abbandoniamo l'alveare vuoto. - E anche noi - aggiunse Kaa - una volta mutata la pelle, non possiamo rientrarvi di nuovo. E' la Legge. - Ascoltami, dilettissimo fra tutti - disse Baloo. - Qui non c'è parola né volontà che ti possa trattenere. Guardami! Chi può chieder ragioni al Padrone della Jungla? Io ti ho visto giocare con quei sassolini bianchi, quando eri un ranocchio; ma ti ha visto anche Bagheera, lei che ti riscattò a prezzo di un toro appena ucciso. Di quei tempi lontani rimaniamo solamente noi due, perché Raksha, la tua mamma di tana, è morta insieme al tuo babbo di tana; anche il vecchio Branco di Lupi è morto da molto tempo; tu sai che fine ha fatto Shere Khan; e Akela morì fra i cani rossi, quando, se non fosse stato per la tua saggezza e la tua forza, tutto il secondo Branco di Seeonee sarebbe morto. Non è più il Cucciolo d'Uomo che chiede un permesso al Branco, ma il Padrone della Jungla che cambia la sua strada. Chi può chieder ragione all'Uomo delle sue abitudini? - Ma Bagheera e il Toro che mi riscattarono... - disse Mowgli - non vorrei... Quelle parole vennero interrotte da un ruggito e da uno schianto nel sottobosco, e Bagheera, agile, forte e terribile come sempre, gli si parò dinanzi; - E per questo - disse, mostrando la zampa destra gocciolante di sangue - che non sono venuta prima. E stata una caccia lunga, ma ora esso giace morto fra i cespugli, un toro al suo secondo anno d'età, il Toro che ti rende libero, Fratellino. Tutti i debiti sono pagati, ora. Per il resto, la mia parola è quella di Baloo - e leccava i piedi a Mowgli. - Ricordati, Bagheera ti ha voluto bene - esclamò, e balzò via. Ai piedi della collina, gridò ancora a lungo e con voce terribile: - Buona caccia su una strada nuova, Padrone della Jungla! Bagheera ti ha voluto bene, ricòrdatene. - Hai udito - disse Baloo - non c'è altro da aggiungere: ora va', ma prima vieni qui da me, Ranocchietto saggio, vieni qui da me! - E' penoso mutare la pelle - osservò Kaa, mentre Mowgli non la finiva di singhiozzare, con la testa sul fianco dell'orso cieco e le braccia intorno al suo collo. Baloo cercava di leccargli delicatamente i piedi. - Le stelle sono rade - disse Fratello Bigio, fiutando il vento dell'alba. - Dove faremo la nostra tana oggi? Perché, d'ora in poi, seguiremo nuove tracce. ... E questa è l'ultima storia di Mowgli. La canzone della partenza. (Questa è la canzone che Mowgli udì risuonare dietro di lui nella Jungla finché non giunse alla porta di Messua). Baloo. Per amore di colui che mostrò ad un ranocchio saggio la strada della Jungla, osserva la Legge del Branco degli Uomini, per amore del tuo vecchio cieco Baloo! Pulita o macchiata, forte o esaurita, seguila come se fosse la traccia di giorno e di notte, senza cercare né a sinistra né a destra. Per amore di colui che ti ama più di ogni altro essere vivente, quando il tuo branco ti procurerà un dolore, di': «Tabaqui canta di nuovo». Quando il tuo branco ti farà del male, di': «Shere Khan è ancora qui per uccidere». Quando il coltello è sfoderato per uccidere, osserva la Legge e va' per la tua strada. (Radice e miele, palma o bocciolo, difendi il cucciolo dai torti e dalle offese!). "Bosco e Acqua, Vento e Albero, il Favore della Jungla ti accompagni!" Kaa. La collera è l'uovo della Paura - solo gli occhi senza palpebre vedono chiaramente. Dal veleno del Cobra nessuno può scampare e così dalla lingua del Cobra. Il discorso aperto chiamerà a te la Forza, il cui compagno è la Cortesia. Non tirare il colpo troppo lungo; non affidare la tua forza ad un ramo fradicio. Misura la tua bocca per il daino e per la capra, perché il tuo occhio non soffochi la tua gola. Dopo aver mangiato, se vuoi dormire guarda che la tua tana sia nascosta e profonda, perché un torto, da te dimenticato, non attiri l'uccisione su di essa. Est e Ovest, Nord e Sud, lava la tua pelle e chiudi la bocca. (Voragine e crepaccio e orlo azzurro della pozza, la Jungla media ti segue!). "Bosco e Acqua, Vento e Albero, il Favore della Jungla ti accompagni!" Bagheera. La mia vita cominciò in gabbia; conosco bene il valore dell'Uomo. Per la Serratura Rotta che mi ha liberato, Cucciolo d'Uomo, guardati dalla razza dei Cuccioli d'Uomo! Quando la rugiada profuma e la luce delle stelle impallidisce, non scegliere la traccia aggrovigliata del gatto selvatico. Nel branco o nel consiglio, in caccia o nel covo, non proclamare la tregua con l'Uomo-Sciacallo. Nutrili di silenzio quando dicono: «Vieni con noi, la vita è facile!». Nutrili di silenzio quando chiedono il tuo aiuto per nuocere al debole. Non ti vantare della tua abilità come i "Bandar-log"; mantieni la calma sopra la preda. Non permettere che né richiami né canzoni né segnali ti facciano deviare dalla tua traccia. (Nebbia mattutina o chiaro crepuscolo, servitelo, Guardiani dei Cervi!). "Bosco e Acqua, Vento e Albero, il Favore della Jungla ti accompagni!" I tre insieme. Sul sentiero che tu devi percorrere alla soglia della nostra paura, dove il Fiore Rosso sboccia; attraverso le notti, quando giacerai imprigionato, senza vedere il nostro cielo materno, ascoltando noi, i tuoi amici, passare; all'alba, quando ti sveglierai al duro lavoro al quale non puoi sottrarti, sempre sentirai nostalgia della Jungla: Bosco e Acqua, Vento e Albero, Saggezza, Forza e Cortesia, il Favore della Jungla ti accompagni!